LA RIFORMA RISOLVERÀ IL PROBLEMA DEL PRECARIATO?

NON PIÙ APARTHEID TRA PROTETTI E NON PROTETTI, MA UN NUOVO REGIME DI PROTEZIONE SUSCETTIBILE DI ESTENDERSI DAVVERO A TUTTI, ANCHE SE CON L’INEVITABILE GRADUALITÀ – IL CAMMINO ANCORA DA COMPIERE

Intervista a cura di Roberto Palumbo, pubblicata sul sito l’Indro il 27 febbraio 2015.

Per provare a capire il Jobs Act, per valutarne contenuti, obiettivi e possibili effetti, per rispondere alla critiche che pure sono arrivate numerose, e non certo tenere, non c’è persona più adatta del professor Pietro Ichino. Giuslavorista, docente alla Statale di Milano, senatore appena rientrato nel Pd dopo una parentesi in Scelta Civica, Ichino è stato infatti il grande ispiratore della riforma del lavoro varata dal Governo, a cui ha dedicato anni di studi, impegno accademico e politico, iniziative fuori e dentro al Parlamento. L’approvazione dei primi due decreti attuativi della legge delega rappresenta indiscutibilmente anche una sua vittoria o, come egli stesso ha scritto sul suo blog, la fine di “una battaglia durata 25 anni, dura al punto di essere segnata tragicamente dalla violenza terrorista”, “la battaglia per un diritto del lavoro non più centrato sulla property rule dell’articolo 18, ma sul principio della flexsecurity; non più applicabile per sua stessa natura e struttura a metà soltanto dei lavoratori dipendenti, ma alla loro totalità”.

Landini ha definito una “grossa bugia” la tesi che il Jobs Act rottamerà la precarietà, ritenendo che “il nuovo contratto non è a tutele progressive”. Cosa ne pensa?
Che la nuova disciplina preveda una protezione della sicurezza economica e professionale del lavoratore crescente con l’anzianità di servizio è facilmente constatabile: sia l’indennizzo per il licenziamento sia il trattamento di disoccupazione sono proporzionati alla durata del rapporto, oltre al diritto al contratto di ricollocazione. Quanto alla questione se questa misura sarà efficace nella lotta contro il dualismo fra protetti e non protetti, è ovvio che Governo e maggioranza sono convinti di questo. Se nelle prossime settimane e mesi si assisterà a un drastico aumento della percentuale di assunzioni a tempo indeterminato sul flusso totale, rispetto al 15 per cento dell’autunno scorso e al 20 per cento del mese di gennaio, vorrà dire che Governo e maggioranza hanno visto giusto.

L’on. Fassina dice che i contratti precari rimangono sostanzialmente tutti.
Non è così: dall’inizio del prossimo anno le protezioni del lavoro subordinato verranno estese al lavoro “parasubordinato”, cioè sostanzialmente dipendente ma in forma giuridica autonoma: co.co.co., lavoro a progetto, ecc. Ma se, come confido accadrà, l’effetto di riassorbimento incomincerà a prodursi subito, fin dalle prossime settimane, questo costituirà la migliore prova del fatto che la rimozione delle rigidità eccessive è già di per sé capace di produrre risultati rilevanti sul terreno del riassorbimento del precariato.

Con il Jobs Act non si apre una sorta di discriminazione incostituzionale tra lavoratori assunti prima e lavoratori assunti dopo la legge?
Quando si modifica la disciplina di un contratto di durata, cioè di un contratto che ha per oggetto una prestazione protratta nel tempo, come il contratto di lavoro o quello di locazione, è inevitabile che ci si trovi di fronte alla scelta tra applicare le nuove norme ai vecchi rapporti modificando il contenuto di posizioni giuridiche già esistenti, oppure limitarne l’applicazione ai nuovi rapporti, dando luogo a una transitoria disparità di trattamento fra contratti vecchi e nuovi. La giurisprudenza costituzionale fino a oggi ha legittimato entrambe le scelte. Resta comunque il fatto che, nel caso delle nuove norme in materia di licenziamento, la disparità di disciplina tra vecchi e nuovi è destinata a essere superata nel giro di pochi anni, per effetto del turnover della forza-lavoro. Aggiungo che questa disparità è cosa ben diversa dal regime attuale di apartheid fra protetti e non protetti: d’ora in poi ci sarà la giustapposizione di un regime di protezione vecchia maniera, basato sull’ingessatura del posto di lavoro, e un regime di protezione nuovo, basato sulla sicurezza economica e professionale del lavoratore nel mercato.

In caso di licenziamento collettivo si dovrebbe agire in modo diverso tra i vecchi e i nuovi …
No: le regole sostanziali restano le stesse per tutti i dipendenti, vecchi e nuovi; cambia solo, per i nuovi, la sanzione nel caso di violazione di quelle regole. Guardi, però, che la discriminazione peggiore ai danni dei new entrants, sul terreno dei licenziamenti collettivi, non sta certo nel nuovo apparato sanzionatorio, bensì proprio nelle vecchie regole.

A che cosa si riferisce?
Al criterio last in first out, fissato dall’articolo 5 della legge n. 223 del 1991: cioè al criterio per il quale si devono licenziare per prime le persone entrate in azienda per ultime. Ancor peggiore, poi, è la discriminazione tra i precari che oggi possono essere lasciati a casa senza un giorno di preavviso né un euro di indennizzo, e i lavoratori regolari cui la vecchia disciplina dei licenziamenti si applica. La sinistra politica e sindacale che oggi si scalda tanto per l’applicazione del nuovo apparato sanzionatorio ai licenziamenti collettivi è la stessa che ha voluto il criterio last in first out, e che per un quarto di secolo ha visto crescere e rafforzarsi il regime di apartheid tra protetti e non protetti senza far nulla di concreto per disinnescare questo processo.

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