IL PUNTO SULLA QUESTIONE DELLA DISCIPLINA DEL LAVORO PUBBLICO

IL JOBS ACT, SE NON CAMBIA IL TESTO, PROBABILMENTE SI APPLICA ANCHE NEL SETTORE PUBBLICO, MA IL PROBLEMA DELLA RIAPPROPRIAZIONE DA PARTE DELLA DIRIGENZA PUBBLICA DELLE PREROGATIVE MANAGERIALI PER IL GOVERNO DELLE RISORSE UMANE NON SI RISOLVE CON UN TRATTO DI PENNA DEL LEGISLATORE

Articolo di Francesco Verbaro, professore della Scuola Nazionale della Pubblica Amministrazione, pubblicato sulla rivista Guida al pubblico impiego, ed. Sole 24 Ore, il 25 gennaio 2015

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Il tema dell’applicabilità delle norme del diritto del lavoro del privato alla PA è noto e lo abbiamo affrontato da ultimo in occasione dell’entrata in vigore della legge 92/2012 e quindi delle modifiche apportate all’art. 18 della legge 300/1970. Ma il tema dell’applicabilità delle norme sul rapporto di lavoro del settore privato alla PA si è posto già altre volte: in occasione del d.lgs. 66/2003, del d.lgs. 276/2003, delle diverse modifiche al d.lgs. 368/2001, come quella contenuta nel DL 34/2014, e in occasione della legge 92/2012.

Il problema nasce dalla cd. privatizzazione del rapporto di lavoro avvenuta con il d.lgs. 29/93 e che non è stata mai forse compresa fino in fondo e che porta ad avere tra le fonti regolatrici del rapporto di lavoro le “disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile”  e quindi anche l’art. 2095 del cc, sulle categorie dei prestatori di lavoro, e  “le leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa”. L’art. 51 del d.lgs. 165/2001 inoltre, sulla “Disciplina del rapporto di lavoro“, prevede esplicitamente che “la legge 20 maggio 1970, n. 300e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”. Il campo di applicazione  previsto dallo schema di decreto legislativo in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti è quello indicato dall’art. 2095 del cc e cioè riguarda “i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri“. Un rinvio ad un articolo che trova applicazione nel settore pubblico, ma che è stato modificato in sede di applicazione dai contratti collettivi i quali nel pubblico (come anche in settori del privato) hanno integrato le categorie legali e le qualifiche di inquadramento. Il campo di applicazione indicato all’art. 1 dello schema di decreto legislativo se applicato alla lettera pone problemi di applicabilità sia al settore pubblico sia a quello privato, il quale con i contratti collettivi e con l’inquadramento unico non ha più come riferimento esclusivo l’art. 2095 del cc. Inoltre, si dovrebbe rilevare come nello schema di decreto sulla “nuova prestazione di assicurazione sociale per l’impiego (Naspi)”, derivante dalla stessa legge delega L. 183/2014, il legislatore senta il bisogno di prevedere esplicitamente l’esclusione dei dipendenti della PA (art. 2) e non lo faccia invece nello schema di decreto di cui stiamo discutendo, confermando quindi che ubi voluit dixit

Il tema comunque non si esaurisce in una questione tecnica circa la formulazione più o meno casuale di leggi che possono portare o meno all’applicazione ai lavoratori del settore pubblico, ma attiene alle politiche del diritto e quindi a quale diritto del lavoro applicare nel settore pubblico. Meglio ancora quale diritto del lavoro sarebbe necessario per il miglior funzionamento della PA, trattandosi di un settore labour intensive e in cui il peso del capitale umano è rilevante nei processi produttivi e nei processi di razionalizzazione e innovazione.

Come vi è stata negli anni una riflessione su quale diritto del lavoro fosse più adeguato a far fronte alle esigenze di flessibilità dei processi produttivi in continuo cambiamento ed esposti alla competizione globale e all’innovazione tecnologica, occorreva domandarsi su quale diritto del lavoro sarebbe stato necessario nella PA. Mentre nel settore privato le associazioni di categoria di rappresentanza dei datori di lavoro (Confindustria, Confcommercio, Confartigianato, et) rappresentano le esigenze in termini di norme, nel settore pubblico manca una voce capace di esprimere i veri fabbisogni datoriali. Il datore di lavoro è spesso il legislatore che trovandosi a chilometri di distanza dai problemi e dalle esigenze reali e mancando di una visione integrata sul settore pubblico propone interventi astratti e non sempre necessari. Un legislatore che corre il rischio di farsi influenzare dal singolo fatto di cronaca, ma di non avere a monte un ragionamento ed una riflessione approfondita sui fenomeni.  Il disegno di legge delega sulla PA (AS 1577) prova a rispondere solo ad alcune delle domande. Gli interventi riguardano in particolare la dirigenza oppure si occupano del reclutamento solo parlando della Scuola nazionale della PA, ma senza un ragionamento sulle tipologie contrattuali. Una riflessione sulle tipologie contrattuali è stata promessa in sede di “armonizzazione” prevista dal d.lgs. 276/2003 (cd. “decreto Biagi”), così come in sede di disciplina del contratto di apprendistato con il d.lgs. 167/2011, il quale prevede un Dpcm che non è stato (ovviamente) mai adottato. Due occasioni mancate, che hanno portato a generare un fenomeno per il quale il ricorso alle assunzioni a tempo indeterminato si è sempre più ridotto e in alternativa si è fatto ricorso in maniera massiccia, e spesso irregolare, ai contratti a termine e ad esternalizzazioni. Bene farebbe quindi il Governo a riprendere il disegno di legge delega sulla PA e a rafforzarlo, cercando di modificare il sistema di reclutamento e rendendo più efficace il sistema sanzionatorio.

Certo, la normativa prevista nella legge 183/2014 è stata scritta per aumentare la convenienza ad assumere e in particolare a tempo indeterminato nel privato. Certamente non il primo obiettivo della PA nell’era della grande contrazione e della spending review. Potrebbe invece essere un obiettivo della PA ridurre il ricorso al TD, visto l’utilizzo maldestro da parte del datore di lavoro pubblico del TD e il divieto di trasformazione da TD a TI, e favorire il ricorso al tempo indeterminato. Ma qui incidono i limiti di spesa e il divieto di assunzione. E’ vero al contempo che il legislatore italiano, direttamente e indirettamente, ha favorito nel settore pubblico più il ricorso al contratto a termine (rinnovi e proroghe) che il ricorso al contratto a tempo indeterminato. Rispetto a questo tema sarebbe senz’altro utile introdurre il contratto di apprendistato nella PA, come strumento di flessibilità in entrata, con l’obiettivo di superare l’eccessivo e patologico ricorso al contratto a termine.

La normativa del cd “jobs act” è stata pensata per il settore privato per ridurre il rischio contenzioso e ridurre l’incertezza presente nell’assunzione a tempo indeterminato per il datore di lavoro in caso di licenziamento. Ciò dovrebbe rendere maggiormente conveniente il contratto a tempo indeterminato anche alla luce degli sgravi contributivi previsti nella legge di stabilità per il 2015. Nel settore pubblico come è stato più volte evidenziato, in teoria, abbiamo fattispecie di licenziamento per giustificato soggettivo ed oggettivo economico molto chiare e semplici, per le quali il rischio di annullamento del licenziamento da parte del giudice dovrebbe essere minimo. Si pensi, ad esempio, per i licenziamenti economici ai casi di enti in dissesto, agli enti che non rispettano il Patto di stabilità o in piano di rientro oppure che hanno un rapporto spesa per il personale spesa corrente ben superiore alle soglie di salvaguardia. Il tema è che la PA, anche di fronte a casi eclatanti, per esempio reati di corruzione oppure in caso di dissesto o mancato rispetto del patto di stabilità o di chiusura di enti non licenzia (giustificato motivo economico). Non a caso il legislatore è stato costretto ad introdurre una norma che prevede la responsabilità disciplinare del dirigente in caso di mancata dichiarazione delle eccedenze. Norma impensabile nel settore privato. Il tema dello “scarso rendimento” infine è disciplinato nei contratti collettivi e nel codice disciplinare ante d.lgs. 150/2009, ma in modo certamente farraginoso. La fattispecie prevista dall’art. 55-quater, comma 2, del d.lgs. 165/2001, del licenziamento disciplinare per  “insufficiente rendimento“, dato il rinvio ai contratti collettivi, necessita di un’apposita disciplina contrattuale.

Il comportamento datoriale del settore pubblico è completamente diverso da quello del settore privato e in particolare oggi, in una situazione di crisi economica e occupazionale, l’indirizzo che si manifesta attraverso le leggi è diretto ad evitare ad ogni costo qualsiasi riduzione di personale, anche se minima e giustificata da un riassetto delle attività amministrative. Si veda, ad esempio, la normativa sulla soppressione delle province o sulla privatizzazione della Croce rossa italiana diretta a salvaguardare tutto il personale anche con contratto a tempo determinato. Un atteggiamento che sta rallentando anche il processo di spending review di regioni, enti locali e lo stesso accorpamento delle società partecipate. Non a caso il legislatore ha previsto con la legge 147/2013 la “mobilità” del personale delle società partecipate da una società ad un’altra, proprio al fine di salvaguardare per quanto possibile l’occupazione. Lo stesso comportamento gestionale del datore di lavoro è opposto a quello che si riscontra nel settore privato: basti pensare ai diversi comuni in dissesto o che non rispettano gravemente il patto di stabilità, che non dichiarano l’eccedenza per esigenze finanziarie; oppure il noto caso delle auto di servizio, cd. auto blu, la cui riduzione di oltre il 40% negli ultimi 5 anni non ha portato nemmeno ad un autista in eccedenza pur trattandosi di personale con profilo specifico non facilmente riconvertibile.

Il settore pubblico allargato viene quindi di fatto investito del compito di mantenere i già deboli livelli occupazionali. Una scelta politica socialmente condivisibile, ma che certo contrasta con ogni processo di modernizzazione, di aumento dell’efficienza e quindi di riduzione della pressione fiscale. Quante volte alcune regioni del mezzogiorno hanno ad esempio utilizzato i fondi strutturali per finanziare la spesa per il personale e per prorogare i contratti a tempo determinato, sollevando diverse critiche. Prassi oggi promossa da una legge dello Stato, la legge 190/2014, “legge di stabilità per il 2015”, che al comma 429 dell’articolo unico prevede che le città metropolitane e le province in attesa del riordino delle funzioni hanno facoltà di finanziare i rapporti di lavoro a tempo indeterminato nonché di prorogare i contratti di lavoro a tempo determinato e i contratti di collaborazione coordinata e continuativa a valere sui fondi strutturali.

Quindi circa l’utilità di applicare le nuove norme sulla tutela in caso di licenziamento illegittimo anche al settore pubblico, potremmo dire che probabilmente queste non servirebbero. Certo ci sarebbe qualche problema specifico da superare, ad esempio, con riferimento alle indennità in luogo del reintegro e alle diverse ipotesi di conciliazione, per le quali andrebbe ben circoscritta la responsabilità erariale per colpa grave. Nel caso della PA, infatti, rimane il problema della responsabilità del dirigente che ha posto in essere una procedura di licenziamento illegittimo. In certi casi di grave errore nella gestione del procedimento, imputabile al dirigente datore di lavoro o all’ufficio procedimenti disciplinari, vi sarebbe comunque una responsabilità disciplinare ed amministrativa per il danno generato alla PA. Si ricorda che il comma 4 dell’art. 55-sexies del d.lgs. 165/2001 disciplina la fattispecie della responsabilità civile eventualmente configurabile a carico del dirigente in relazione a profili di illiceità nelle determinazioni concernenti lo svolgimento del procedimento disciplinare, limitandola ai casi di dolo o colpa grave. Mentre l’art. 66 riguardante la conciliazione preventiva obbligatoria, abrogato con la legge 183/2010, prevedeva esplicitamente al comma 8 che la conciliazione della lite non può dar luogo a responsabilità amministrativa. Formula che andrebbe ripresa per ridurre i “rischi” per il datore di lavoro pubblico nelle procedure di licenziamento soprattutto in presenza di vizi formali.

Non applicando completamente la nuova normativa ai lavoratori del settore pubblico, si potrebbe porre un problema di opportunità e di parità di trattamento tra neoassunti del settore pubblico e neoassunti del settore privato. L’accesso ai pubblici uffici per concorso pubblico non si può certamente considerare una tutela in termini di non licenziabilità o meglio di reintegro sempre e comunque. L’art. 97 della Cost. prevede che nelle PPAA si accede per concorso, ma non che non si possa essere licenziati o che non si possano applicare le norme del settore privato (che già applichiamo dal 1993). Tra l’altro molti dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono entrati senza concorso in forza di leggi e provvedimenti speciali. Un regime differenziato di tutele tra pubblico e privato potrebbe probabilmente resistere al giudizio di costituzionalità, ma forse non essere compreso oggi dall’opinione pubblica. Certamente anche ai lavoratori del settore pubblico andrebbero estese le forme di tutela previste in caso di licenziamento come i servizi di ricollocazione, per favorire il reingresso nel mercato del lavoro.

Un tema che viene posto allora da alcuni critici sull’estensione delle norme del jobs act in materia di licenziamento alla PA è quello relativo al rischio che una minore tutela in caso di licenziamento dei dipendenti della PA può portare a pregiudicare il grado di imparzialità della PA. Questo è un tema che si è posto anche per la dirigenza delle pubbliche amministrazioni quando entrò in vigore la contrattualizzazione del rapporto di lavoro e fu introdotto il contratto di incarico a termine, con il principio di rotazione degli stessi. Tale “precarietà”, per la dirigenza, è oggi ulteriormente rafforzata nel disegno di legge delega sulla PA.

Non vedo quindi per i motivi sopra elencati una minaccia reale all’imparzialità della funzione dall’introduzione della normativa in materia contenuta nel jobs act, quanto piuttosto il rischio di perdere un’occasione di riflessione su ciò che servirebbe, anche sul piano normativo, oggi e nei prossimi anni per avere una PA funzionale ed efficiente. Non tutte le norme elaborate per il settore privato sono funzionali ad un miglior funzionamento dello stesso. Differenze sostanziali rendono irrazionali e inutili alcune trasposizioni ed estensioni. Certamente il dibattito dovrebbe essere guidato da una conoscenza dei fenomeni e delle esigenze del settore pubblico e non da semplici campagne mediatiche. Le leggi sono strumenti a supporto di una mission e di una visione e attuativi di una politica del diritto, che ancora oggi manca o comunque non è chiara nel settore pubblico.

Il dibattito sull’estensione del jobs act al settore pubblico lascia, come già avvenne in passato, l’amaro in bocca circa le cose non dette e sui compromessi e i nodi non sciolti.

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