UNA SENTENZA SUL VIAGGIO DEI MIGRANTI AFRICANI ATTRAVERSO L’INFERNO

Leggere la motivazione di questa condanna all’ergastolo è un adempimento doloroso, in certi passaggi sconvolgente, ma necessario per chiunque, in Europa o altrove, voglia affrontare con cognizione di causa la questione dei flussi migratori tra l’Africa e l’Europa oggi – Necessario anche per prendere (e dare) atto di una pagina straordinaria scritta dalla Giustizia italiana

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Sentenza pronunciata dalla Corte d’Assise di Milano il 1° ottobre 2017, depositata il 1° dicembre, estensore la dott. Ilaria Simi – La sentenza è preceduta da un mio breve commento – Le foto che corredano questo post non fanno, ovviamente, parte della motivazione della sentenza e non sono tratte dagli atti processuali – In argomento v. anche il mio editoriale telegrafico del 20 novembre,
Come si ferma il massacro in Libia e più a sud, e il mio articolo sul Riformista del 23 maggio 2009, Un traghetto per Lampedusa       .
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UN MIO BREVE COMMENTO

Siamo abituati a criticare la Giustizia del nostro Paese, imputandole le molte piaghe che effettivamente la affliggono. Ora la pubblicazione di questa sentenza ci offre un buon motivo per sospendere per un giorno le critiche e prendere atto di una pagina straordinaria che è stata scritta in un’aula giudiziale italiana.  Straordinaria, innanzitutto, è la vicenda di un gruppo di immigrati somali che in un Centro di accoglienza italiano riconoscono uno dei loro aguzzini: un membro dell’organizzazione che in Africa, col pretesto di aiutarli a raggiungere l’Europa, ha organizzato il loro sequestro in diversi lager libici, dove li ha sottoposti alle sofferenze più atroci per estorcere dalle loro famiglie una sorta di “riscatto”, condizione per consentire loro poi di affrontare la pericolosissima traversata del Mediterraneo; il gruppo a Milano blocca il connazionale, gli contesta i crimini commessi, ma decide di non farsi giustizia da solo, bensì di denunciarlo alla Polizia. Un atto civilissimo, di fiducia nell’amministrazione giudiziaria del Paese che li ospita; cui l’amministrazione stessa risponde nel modo migliore, con straordinaria competenza, efficienza e tempestività, applicando una norma del codice penale che attribuisce al giudice italiano, su richiesta del ministro della Giustizia, la giurisdizione su crimini commessi ai danni dei rifugiati, che altrimenti non avrebbero alcuna possibilità di essere perseguiti. Nel giro di meno di un anno non solo un’indagine complessa viene portata a compimento dalla Polizia giudiziaria e dalla Procura, ma si svolge anche fino alla conclusione un dibattimento che pone sotto gli occhi di tutto il mondo civile il massacro cui sono sottoposti i profughi africani nelle mani delle organizzazioni dedite  – complice la Polizia libica – alla “gestione” e allo sfruttamento spietato del loro tragico viaggio verso le coste siciliane o calabresi.

Lager libicoLa sentenza conclude un processo il cui svolgimento è stato caratterizzato da una altissima tensione emotiva, per la drammaticità delle vicende e l’enormità delle sofferenze che l’istruttoria ha fatto rivivere nell’aula della Corte d’Assise; ma anche per la scelta della Corte di sottolineare, nel governo del processo, la considerazione di tutte le persone coinvolte – non solo le parti lese, ma anche l’imputato, sua moglie e la sua figlia bambina – come persone umane, soggetti di emozioni e affetti familiari: la stampa ha dato notizia, a suo tempo, della decisione della Corte di offrire all’imputato, in una pausa delle udienze, il tempo e lo spazio riservato, fuori dalle sbarre, in cui incontrarsi con le due familiari. Quel padre che abbraccia teneramente la moglie e la figliolina in un intervallo tra le testimonianze sconvolgenti che lo dipingono come aguzzino spietato,  torna a porre in primo piano la stessa banalità del male di cui tanto abbiamo già imparato dalla vicenda della Shoah organizzata dalla burocrazia nazista. Oggi come allora gli autori di atrocità inaudite, suscettibili di essere qualificate persino come crimini contro l’umanità secondo lo Statuto della Corte penale internazionale istituita per punirli (ciò che viene opportunamente ricordato nella nota 45 della sentenza), sono padri di famiglia capaci di sentimenti di tenerezza verso i propri figli.

Va poi sottolineata la scelta dei giudici togati, estensori della sentenza, di non soffermarsi sui molti racconti raccapriccianti, sulle molte frasi capaci di suscitare emozioni forti che hanno scandito il dibattimento: dei fatti, già descritti in tutta la loro crudezza nei capi di imputazione formulati dal Pubblico Ministero, nella sentenza si dà conto senza alcuna enfatizzazione emotiva, secondo lo stile tecnicamente appropriato, cioè strettamente funzionale alla motivazione della condanna. In questa scelta di tecnica espositiva, che comunque non sminuisce minimamente l’inaudita gravità dei crimini per i quali la condanna stessa viene irrogata, si esprime probabilmente anche l’intendimento dei giudici di rispettare il più possibile la riservatezza delle vittime, il ricordo del dolore non meno che  il dolore del ricordo.

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LA SENTENZA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

La Corte d’Assise di Milano […] ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa penale a carico di

Osman Matammud durante il processo

Osman Matammud durante il processo

MATAMMUD Osman (alias MMAHAMUD Osman), n. a Mogadiscio (Somalia) il j21.4.1994; arrestato il 17.1.2017 […] detenuto nella Casa Circondariale di Milano San Vittore, detenuto – presente

[…]

IMPUTATO

A) Artt. 81 cpv., 11 , 630 1 e 3 c.p., 4 L. 146/2006 per avere, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso ed in concorso con persone non identificate, sequestrato alcune centinaia di cittadini somali tra cui […] al fine di ottenere, per sé e per gli altri componenti della sua organizzazione, come prezzo della liberazione, l’ingiusto profitto della somma di 7000 dollari pattuita per l’ingresso clandestino di ciascun cittadino somalo nel territorio dello Stato italiano.

Essendo MATAMMUD componente di una organizzazione criminale a carattere transnazionale che si occupava:

  • in una prima fase, del trasferimento dei cittadini somali su rotte collaudate via terra dalla Somalia, attraverso l’Etiopia e il Sudan, sino alla Libia, a bordo di minibus e fuori trada scortati da uomini armati della Organizzazione;
  • in una seconda fase, del sequestro dei cittadini somali in un campo di raccolta sito in Libia, nei pressi della città di Sani Walid, campo della cui gestione era direttamente responsabileb MATAMMUD ivi presente quotidianamente, sequestro che si protraeva per alcuni mesi sino a che i familiari di cittadini somali provvedevano al trasferimento della somma di 7000 dollari in contante, con il sistema della “Hawala”, versata ad esponenti dell’ organizzazione e con le modalità indicate dallo stesso MATAMMUD che teneva i contatti con i familiari dei sequestrati;
  • in una terza fase, del trasferimento dei cittadini somali che avevano pagato quanto pattuito, sempre a bordo di minibus scortati da uomini armati, per un terzo campo sito nei pressi della città libica di Sabratah, zona costiera della Libia, da dove poi i cittadini somali venivano imbarcati a centinaia su natanti nella disponibilità dell’organizzazione per il successivo viaggio verso le coste italiane.

Immigrazione 9Ed in particolare, MATAMMUD dirigeva il campo di raccolta sito nei pressi della città di Bani Walid, di cui era il responsabile per conto dell’ organizzazione al cui interno era inserito, con le seguenti modalità:

  • i cittadini somali, complessivamente alcune centinaia tra uomini e donne anche di minore età, venivano rinchiusi (in precarie condizioni igieniche, dormendo per terra, con un solo bagno in comune, scarsamente alimentati in un capannone sorvegliato da uomini armati, chiuso di notte con delle catene e sito all’interno di un campo circondato da mura di cinta ed in cui erano presenti altri uomini armati (somali e libici) alle dipendenze di MATAMMUD, sì che la privazione della libertà personale era totale ed era impossibile la fuga;
  • MATAMMUD personalmente e i suoi uomini, con frequenza quotidiana, si recavano all’interno dove picchiavano con pugni e calci, con bastoni, con spranghe di ferro i cittadini somali ivi presenti, cagionando agli stessi fratture agli arti ed in alcuni casi (come sub B) specificato) anche la morte nonché cagionando gravi ustioni incendiando sacchetti di plastica che venivano posti sulla schiena delle vittime facendo colare la plastìca liquefatta e incandescente sul corpo;;
  •  MATAMMUD personalmente e i suoi uomini, con frequenza quotidiana, prelevava cittadini somali di sesso maschile dal capannone per portarli in una vera e propria “stanza delle torture” sita all’ interno del campo, ove venivano torturati attraverso scariche elettriche, frustate, colpi di bastone e di spranghe di ferro, o lasciandoli per ore disidratati sotto il sole;
  • MATAMMUD personalmente, con frequenza quotidiana, prelevava cittadine somale dal capannone per portarle nel proprio appartamento sito all’interno del campo, ove le ragazze, anche di minore età, venivano sottoposte a gravissime violenze sessuali (come sub C) specificato).

Violenze, queste descritte, poste in essere in danno di tutti i soggetti sequestrati, e tra gli altri quelli identificati menzionati in precedenza, anche come mezzo di pressione per i familiari dei sequestrati al fine di indurli a a recuperare nel più breve tempo possibile le somme di denaro pattuite per l’ingresso clandestino in Italia e a trasferirle all’organizzazione di MATAMMUD.

Con l’aggravante di aver volontariamente cagionato la morte di almeno quattro sequestrati, i cui familiari non avevano provveduto al versamento del denaro pattuito.

Con l’aggravante della trasnazionalità essendo il reato stato commesso da un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno stato.

Fatti commessi in Libia, dal 2015 sino a metà del 2016 e comunque in epoca antecedente e prossima al 26.9.2016, data del fermo dell’ indagato (e punibili essendovi richiesta del Ministro della Giustizia, ex artt. 10, 128 c.p. e 342 c.p.p., in data 21.1.2016).

B) Artt. 81 cpv., 10, 575, 577 co. 1 n. 4 in relazione all’ art. 61 1 e c.p., 4 L. 146/2006, per avere, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso ed in concorso con persone non identificate, cagionato la morte di numerosi (cosi modificato dal P.M. in data 15.9.17) cittadini somali non identificati, sequestrati nel campo di Sani Walid, i cui familiari non avevano proveduto al pagamento della somma pattuita per il viaggio dalla Somalia; decessi avvenuti nel campo di Beni Walid e, in alcuni casi, nel campo di Sabratha lungo il tragitto tra i due campi, in conseguenza delle violenze subite in precedenza sub A) descritte (cosi modificato dal P.M. in data 15.9.2017). Con l’aggrav!nte di aver commesso il fatto per motivi abbietti, consistiti da un lato nella volontà di punire il mancato pagamento della somma pattuita di cui sopra, dall’altro di dare un “monito” agli altri reclusi circa le conseguenze a cui si sarebbero esposti in caso di qualsivoglia forma di ribellione o in ottemperanza a quanto imposto dall’ organizzazione, monito estrinsecatosi anche in una occasione mostrando i cadaveri di due delle vittime all’interno del capannone; nonché infine in un ulteriore caso essendo il decesso stato conseguenza di violenze sessuali subite da una delle vittime.

Con l’aggravante di aver adoperato sevizie e crudeltà verso le persone, essendo le vittime state sottoposte per un lungo tempo alle sevizie sub A) descritte ed essendo infine uccise a seguito delle pratiche di tortura adoperate che ne avevano compromesso il fisico, sino all’evento finale omicidiario consistito per alcune vittime in percosse e sevizie particolarmente violente, per altre mediante strangolamento.

Con l’aggravante della trasnazionalità essendo il reato stato commes o da un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato. Fatti commessi in Libia, dal 2015 sino a metà del 2016 e comunque n epoca antecedente e prossima al 26.9.2016, data del fermo dell’indagato (e punibili essendovi richiesta del Ministro della Giustizia, ex artt. 10, 128 c.p. e 3 2 c.p.p., in data 21.12.2016)

C) Artt. 81 cpv., 6 9 bis co. 1 e 2, 609 ter nn. 4, 5, 5 quinquies, 5 sexies p., per avere, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, costretto alcune decine di cittadine somale sequestrate all’ interno del campo di Sani Walid, e tra queste AYAN Mohamud e HASSAN Ido Mohammed, minorenni all’epoca dei fatti, a subire violenze sessuali, con frequenza anche quotidiana, abusando delle loro condizioni di inferiorità fisica e psichica, e mediante minacce di morte e violenza consistita nel picchiarle (con pugni, calci, con una cinghia e con bastoni), nel legarle per impedir ogni possibilità di movimento e, trattandosi di ragazze infibulate, nell’ aprire loro la vagina con strumenti metallici a fine di poterle per la prima volta penetrare.

Con le aggravanti di aver commesso il fatto: su persone comunque sottopposte a limitazione della libertà personale, trattandosi di persone sequestrate come sub A) specificato; nei confronti di persone che non avevano compiuto gli anni diciotto; da persona che fa parte di una associazione per delinquere ed a fine di agevolarne l’attività; con modalità di commissione caratterizzate da gravi violenze ed essendo derivato alle ragazze minori, a causa della reiterazione delle condotte, un pregiudizio grave.

Fatti commessi in Libia, dal 2015 sino a metà del 2016 e comunque in epoca antecedente e prossima al 26.9.2016, data del fermo dell’indagato e punibili essendovi richiesta del Ministro della Giustizia, ex artt. 10, 128 c.p. e 42 c.p.p., in data 21.12. 2016).

Naufragio barcone immigratiD) Artt 81 cpv., 1 O c., 12 co. 3 lett. a), b), c), d), e), co. 3 bis e 3 ter let. b) D.Leg. 286/1998 (come integrato dal P.M. all’udienza 3.7.2017), 4 1.146006 per avere, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso ed in concorso con persone non identificate, organizzato il trasporto e comunque compiuto atti diretti a procurare illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, con le modalità descritte al capo A), di alcune centinaia di cittadini somali tra cui NUUR Ali Oumar, AYAN Mohamud, RAHMAN AHMAD Abdi, HASSAN Ido, MOHAMMED, ABDULQUANI Osman, IDRIS Amin, SHAFICI Fayasal, MOHAMED A di Homze, MOHAMED HASSAN Abdullai, ABDI Moulid Aidarus, MUMIN AHMED Nimcan, AHAMED YUSUF Mahamad, ABDULHI ABDIRAHMA Abdiaziiz, IBRAHIM Ali Lulu, MOHAMED Safia e DAHIR Mohamed (così integrato dal P.M. in data 15.9.2017).

Con le aggravanti: di riguardare il fatto l’ingresso nel territorio dello Stato di più di cinque persone; di aver esposto le persone trasportate al pericolo per la vita o per l’incolumitià per procurarne l’ingresso; di aver sottoposto le persone trasportate a trattamenti inumani e degradanti per procurarne l’ingresso; di aver commesso il fatto in più di tre persone in concorso; di aver disponibilità di armi.

Con l’aggravante dell’aver commesso il fatto al fine di trarne profitto, come sub A) specificato.

Con I’ aggravante della transnazionalità essendo il reato stato commesso da un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato.

Fatti commessi in varie località delle coste siciliane e calabresi dove avvenivano gli sbarchi, dal 2015 sino alla metà del 2016, ed accertati in Milano il 26.9.2016, data del fermo dell’indagato.

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 

Matammud Osman è stato chiamato a rispondere del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione per aver tenuto reclusi centinaia di cittadini somali nei campi di raccolta da lui gestiti in Libia dal 2015 e fino alla metà del 2016 e per averli sottoposti a gravissimi maltrattamenti ai fini di ottenere  il pagamento della somma richiesta per il loro trasferimento in Italia. Il delitto gli è stato contestato con più aggravanti tra cui quella prevista dal III comma dell’art 630 c.p. per avere volontariamente cagionato con le condotte di cui sopra la morte di “almeno quattro persone”.

L’imputato inoltre, in considerazione delle violenze da lui direttamente esercitate ai danni dei prigionieri del campo da lui gestito, è stato chiamato a rispondere del delitto di omicidio volontario aggravato di “numerose persone”, nonché del delitto di violenza sessuale ai danni “di decine di donne”, alcune anche minori.

Gli è stato infine imputato di aver violato le norme sull’immigrazione, per aver favorito l’immigrazione clandestina di centinaia di cittadini somali in Italia coor*dinando la sua condotta a quella dei membri di una vasta organizzazione che operava in più Stati.

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Il presente procedimento ha avuto inizio a seguito dell’intervento della Polizia locale di Milano in data 26.9.17 nei pressi del centro di accoglienza immigrati sito in via Sammartini. Gli operanti erano intervenuti perché avevano notato un assembramento di persone molto animato ed avevano raccolto subito le accuse di alcuni ragazzi nei confronti di Ismail (successivamente identificato in Matammud Osman). I ragazzi lo avevano subito accusato di aver posto in essere gravi maltrattamenti e fatti di violenza sessuale ai danni loro e di numerosi  altri cittadini somali di cui egli aveva concorso ad organizzare l’ingresso clandestino in Italia.
Dopo aver raccolto la denuncia di questi ragazzi, Matammud veniva sottoposto a fermo dalla Polizia ex art 384 c.p.p.

A seguito dell’interrogatorio di garanzia, convalidato il fermo, all’imputato veniva applicata la misura cautelare della custodia in carcere per la violazione delle norme sull’immigrazione.

Successivamente alla richiesta ex art 10 c.p. del Ministro della Giustizia di procedere nello Stato per i reati commessi in Libia, il Pubblico Ministero aveva avviato un ulteriore procedimento nei confronti di Matammud per i  reati pluriaggravati di sequestro di persona a scopo di estorsione, omicidio e violenza sessuale. Anche per questi reati veniva applicata all’imputato la misura cautelare della custodia in carcere.

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I due procedimenti venivano quindi riuniti e con decreto di giudizio immediato emesso in data 23.03.2017, veniva fissata l’udienza preliminare.

Nel corso della stessa la difesa dell’imputato avanzava istanza di procedersi col rito abbreviato condizionato all’acquisizione di varie prove (acquisizione di documentazione presso la Procura di Trapani relativa al giorno dello sbarco dell’imputato, perizia medico legale sulle cicatrici mostrate dall’imputato, esame di Ubax Oumar ed Aragsan in ordine alla personalità dell’imputato ed alle sue condotte verso gli altri migranti, esame dell’imputato, nonché audizione di Abubakar Ali Hamdi, moglie dello stesso) [1].  Il giudice delle indagini preliminari rigettava la richiesta ritenendo le integrazioni probatorie richieste non  necessarie ai fini della decisione.

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Nel presente procedimento si costituivano parte civile le seguenti parti lese: Mohamed Abdi Homze, Mohamood Ayan, Hassan Iido, Fayasal Caabi Shafici, Osman Abdulqani, Idris Amin, Nuur Ali Oumar, Mumin Ahmed Nimcan, Ahmed Yusuf Mahamad, Rahman Ahmad Abdi.

Depositava altresì atto di costituzione di parte civile l’associazione ASGI (Associazione studi Giuridici Immigrazione) ed all’udienza dell’11.7.17 la Corte rigettava la richiesta di estromissione della stessa avanzata dalla difesa dell’imputato, ritenuta sussistente la legittimazione anche di questa parte , in considerazione delle finalità statutarie e delle attività dell’Associazione.

In via preliminare, la difesa dell’imputato rinnovava la richiesta di procedersi col rito abbreviato. Il Pubblico ministero e le parti civili si opponevano e la Corte rigettava l’istanza, rilevato che diverse erano le prove a cui, in udienza preliminare e in dibattimento, era stata subordinata la richiesta del rito [2].

Veniva quindi dichiarato aperto il dibattimento e le parti articolavano le loro richieste probatorie.

Nessuna delle parti chiedeva di rinnovarsi l’esame delle persone offese già sentite in Incidente probatorio. Il PM chiedeva l’audizione di alcuni operanti e di altre quattro parti lese, mentre la difesa dell’imputato chiedeva l’audizione della moglie di Matammud.

La Corte ammetteva tutte le prove orali avanzate dalle parti ed acquisiva la documentazione prodotta dal PM e dalle parti civili (documentazione che verrà menzionata di volta in volta nel trattare dei diversi argomenti cui si riferisce).

La Corte poi, ai sensi dell’art 147 disp.att. c.p.p., rigettava la richiesta presentata dalla difesa dell’imputato di revocare l’autorizzazione alla videoripresa del dibattimento, ritenuto sussistente un elevato interesse sociale in ordine ai delitti in contestazione (escludendo solo che fosse ripreso il volto dell’imputato e dei testi che avessero  espresso una volontà contraria).

Sempre all’udienza del 11.10.17 venivano acquisiti ai sensi dell’art 512 c.p.p. il verbale con le dichiarazioni alla Polizia rese da ABDULLAI MOHAMED HASSAN, avendo la Corte rilevato che il teste, anche se quando era stato sentito una prima volta si era detto disponibile a presentarsi, ora non era più stato rintracciato e risultava non rintracciabile.

Veniva quindi sentita l’ispettrice della polizia locale di Milano D’Antonio che illustrava lo sviluppo delle indagini.

All’udienza del 12.07.17 si procedeva all’escussione del teste Bufano Paolo della Squadra Mobile della Polizia di Stato che aveva effettuato l’intervento il giorno del fermo dell’imputato, delle parti lese Amin IDRIS (che non era stato sentito in incidente probatorio per le sue difficoltà psico fisiche) e Hamed Mahad OMAR (di cui venivano acquisite anche le dichiarazioni rese in precedenza alla polizia), nonché del consulente del PM, Ismail Miriam (antropologa che illustrava la suddivisione clanica della popolazione somala).

Venivano quindi acquisiti sull’accordo delle parti i tabulati telefonici, la relazione tecnica redatta dal Sovrintendente De Feo ed il verbale con le  sommarie informazioni rilasciate da IBRAHIM ALI LULU (che veniva comunque sentita all’udienza successiva).
All’udienza del 12.09 veniva escusso il consulente medico legale del PM, quindi Ibrahim Ali LULU e la moglie dell’imputato Hamdi Ali Abubakar.

All’udienza del 13.9 veniva esaminato l’imputato e le parti preannunciavano le loro richieste ex art 507 cpp e consentivano all’acquisizione dei verbali di interrogatorio dell’imputato, delle dichiarazioni rese da Mohamed Safia e Dahir Mohamed e Ahmed Abdallah Suad. All’udienza del 15.9 terminava l’esame dell’imputato, la Corte si pronunciava sulle richieste di integrazione delle prove articolate dalle parti e procedeva all’audizione dei primi due dei tre testi ora citati. Il PM provvedeva quindi ad integrare i capi di imputazione e l’imputato, interpellato sul punto, non chiedeva termine.

All’udienza del 26.09 veniva sentita Ahmed Adalla Suad e le parti iniziavano a precisare le loro conclusioni.

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Le parti lese di cui è stata raccolta la testimonianza in questo procedimento sono 17.

Il loro numero e l’affinità dei loro nomi/cognomi ha consigliato per maggior semplicità e chiarezza espositiva di citarle d’ora innanzi solo con uno di questi nomi secondo il seguente prospetto:

IDO HOSSAN (d’ora innanzi IDO),

AYAN MOHAMMUD (d’ora innanzi AYAN),

IDRIS AMIN (d’ora innanzi IDRIS),

MUMIN NIMCAM (d’ora innanzi MUMIN)

HAMED YUSUF MAHMAD (d’ora innanzi YUSUF)

AHMAD FARAX ABIDARAHMAN (d’ora innanzi ABIDARAHMAN),

NUUR ALI OUMAR (d’ora innanzi NUUR),

ABDULQANI OSMAN (d’ora innanzi ABDULQANI),

HOMZAWI MOHAMED (d’ora innanzi HOMZE),

SHAFICI FAYSAL CAABI (d’ora innanzi SHAFICI)

AMED MOHAMAD OMAR (d’ora innanzi OMAR)

ABDI MOULID AIDOURUSSE (d’ora innanzi AIDOUROUSSE)

ABDULI ABDI RAHMAN (d’ora innanzi ABDULI)

MOHAMED SAFIA (d’ora innanzi SAFIA)

DAHIR MOHAMED (d’ora innanzi DAHIR)

IBRAIM ALI LULU   (d’ora innanzi LULU)

MOHAMMED HASSAN ABDULLAI (d’ora innanzi ABDULLAI)

SCHEMA della MOTIVAZIONE

Matammud Osman, fin dal giorno del fermo, ha sempre sostenuto di essere, anche lui come gli altri, un migrante, un profugo che aveva intrapreso “il viaggio della fortuna” alla volta dell’Europa e che era stato a sua volta vittima delle violenze che si perpetravano nei campi di raccolta in Libia, negando di averle esercitate lui stesso.

Tuttavia dalle denunce e dalle dichiarazioni di ciascuna delle 17 persone offese sentite nel procedimento si delinea  un quadro ben diverso che lo dipinge come il gestore di alcuni di detti campi, nonché come il principale autore delle violenze subite dalle parti lese e dagli altri migranti che erano stati reclusi nei campi di Bani Walid e di Sabrata.

            La particolarità e drammaticità della vicenda che si è delineata attraverso le testimonianze di tutte le parti lese ha fatto ritenere necessario non limitarsi a presentare una sintesi delle stesse, ma procedere a riportare sugli argomenti più importanti le loro diverse esperienze e conoscenze.

Prima di analizzare le dichiarazioni delle parti lese si è peraltro ritenuto opportuno descrivere l’esordio e lo sviluppo delle indagini, analizzando in particolare le circostanze del fermo dell’imputato, le verifiche relative alle denunce delle prime parti lese, la ricerca di altri profughi transitati per i campi gestiti da ISMAIL, così da far emergere la casualità del rintraccio dell’imputato e la spontaneità ed autonomia delle testimonianze di tutte le vittime (paragrafo 1).

Si è quindi ritenuto di riportare le testimonianze delle persone offese ripartendole per argomento così da permettere un più semplice raffronto tra le stesse e farne emergere  la specificità e la complessiva coerenza (paragrafo 2).

Dapprima sono state esaminate le dichiarazioni delle persone presenti al fermo dell’imputato per sottolineare la casualità del loro incontro e la spontaneità delle loro denunce, nonché la conformità di questa parte del loro racconto con i risultati delle indagini della Polizia (paragrafo 2.1 e sottoparagrafi).

Quindi si è proceduto a verificare il racconto delle persone offese con riguardo al viaggio che le ha portate dalla Somalia all’Italia, passando per i campi in Libia gestiti da ISMAIL per ricostruire l’azione dello stesso e il suo coordinarsi con l’attività criminale transnazionale (paragrafo 2.2 e sottoparagrafi). 

Lager-libici-300x133Si è esaminata poi la condizione di reclusione in cui erano stati tenuti i profughi nei campi libici ed alle violenze esercitate da ISMAIL ai loro danni per assicurarsi il pagamento del denaro preteso come prezzo per la loro liberazione (paragrafo 2.3 e sottoparagrafi). 

Si è proceduto infine ad analizzare le loro dichiarazioni con riguardo alle violenze sessuali subite od assistite ed alle morti cagionate da ISMAIL (paragrafi 2.4 e 2.5).

Sono state poi analizzate le dichiarazioni della moglie dell’imputato e quelle di Matammud, nonché le obiezioni e gli argomenti articolati in sua difesa (paragrafi 3, 4 e 5).      

Si è passati infine a qualificare dal punto di vista giuridico le condotte di Matammud così ricostruite ed ad individuare il conseguente trattamento sanzionatorio (paragrafi 6 e 7).   

Da ultimo sono state analizzate le richieste delle parti civili (paragrafo 8).

  1. LE INDAGINI

1.1 Il fermo e le prime denunce

La Sovrintendente D’Antonio e l’Agente di Polizia Bufano hanno illustrato l’intervento che ha portato al fermo dell’imputato e l’attività successiva di indagine svolti dalla Polizia locale di Milano, Unità specializzata per i reati a danno delle fasce deboli e per la tutela di donne e minori.

Gli stessi hanno raccontato che nel pomeriggio del 26.09.17 una pattuglia di stanza in via Sammartini era intervenuta in prossimità dell’omonimo Centro di accoglienza perché aveva notato un gruppo di persone discutere animatamente. Alcuni ragazzi si erano avvicinati chiedendo a gesti agli operanti di seguirli. Raggiunto il gruppo, questi ultimi avevano visto dei giovani che stavano trattenendo un ragazzo. Facendosi aiutare per la traduzione da alcuni ausiliari del Centro di Accoglienza, avevano raccolto subito da parte di alcuni dei presenti gravi accuse nei confronti dell’odierno imputato, che chiamavano tutti ISMAIL. I ragazzi infatti sollevavano le magliette mostrando delle cicatrici e le ragazze accusavano ISMAIL di violenze sessuali ai loro danni.

Gli operanti avevano pertanto condotto tutti i presenti presso i loro uffici ed avevano proceduto a verbalizzare le  prime dichiarazioni di alcuni degli stessi (di IDO, AYAN, ABIDARAHMAN e NUUR).  Dal momento che era già molto tardi e non avevano trovato un interprete somalo, avevano convocato di nuovo per il giorno seguente tutte le persone presenti al momento dell’intervento, tra cui i primi quattro denuncianti (le cui dichiarazioni erano state raccolte per il momento solo con grande difficoltà in inglese).

Alle persone invitate dagli operanti a ripresentarsi il giorno successivo, se ne erano aggiunte anche altre (per esempio AIDOUROUSSE) che, seppur non presenti il giorno del fermo, ne avevano avuto conoscenza tramite foto e notizie pubblicate su Facebook, e volevano rilasciare anch’esse le proprie dichiarazioni.

1.2 Le prime indagini a riscontro

Le indagini da parte della Polizia locale di Milano erano proseguite con l’acquisizione dei filmati delle telecamere della zona in cui era avvenuto il fermo 3].

Dalle stesse era emerso che alle ore 15.01 del 26.09.16, il Matammud, primo ad entrare nel raggio di ripresa della telecamera, stava telefonando. Subito dopo (15.02) venivano inquadrati anche AYAN, IDO, SHAFICI e ABIDARAHMAN, ai quali si erano aggiunti progressivamente NUUR e IDRIS. Le telecamere avevano ripreso una situazione animata, in cui più persone si erano radunate intorno all’imputato, ma senza gesti di violenza nei confronti dello stesso (era solo stato spintonato contro il muro affinchè non fuggisse).  C’erano anche delle persone che non avevano seguito gli operanti per presentare denuncia contro ISMAIL (in particolare dalle foto risulta essere stata presente una donna di nome SUAD che veniva rintracciata in seguito e che veniva sentita nel febbraio 2017).

Inoltre, la Polizia aveva formato un album con varie fotografie, inclusa quella dell’imputato, ed un altro con le foto di queste prime persone offese [4] , compilando per ciascuno di questi delle schede con i dati inerenti al loro sbarco ed ai successivi controlli e spostamenti [5], ai fini di far effettuare un riconoscimento fotografico a tutti i denuncianti sia con riguardo ad ISMAIL, sia con riguardo agli altri dichiaranti, nonché ai fini di accertare la veridicità della loro ricostruzione dei loro movimenti dall’arrivo in Italia.

Avevano appurato innanzitutto che l’imputato era sbarcato il 29 Agosto 2016 ed era stato fotosegnalato il giorno seguente a Trapani, insieme ad una donna di nome Ubax (o UBAZ) , che aveva indicato come sua moglie. Matammud era stato quindi destinato ad un Centro di prima accoglienza in Piemonte, dal quale si era allontanato volontariamente dopo circa dieci giorni. Non era mai stato in Centri di accoglienza a Milano.

Avevano inoltre richiesto i dati del traffico telefonico dei due cellulari trovati in possesso del Matammud e successivamente sequestrati, al fine di accertarne gli spostamenti e verificare  eventuali contatti con le persone offese, sia via sms sia tramite profili Facebook, nonché per  controllarne i contenuti in termini di immagini, video etc.

Il telefono di marca HUAWEI (con il numero telefonico 351.0266237) e quello di marca TECHMADE (col numero 351.151527 [6]) sequestrati a Matammud risultavano entrambi intestati a persone straniere non rintracciabili.
Fin da prima del suo allontanamento da Settimo Torinese, già dal 3 settembre,  entrambi questi telefoni risultavano localizzati nella provincia di Firenze.

Quindi dal 25 Settembre (giorno prima del fermo), risultavano localizzati in luoghi compatibili con uno spostamento in pullman da Firenze a Milano (l’ultima cella agganciata  quella sera alle 22 e 22.10 era quella relativa al capolinea dei pullman che arrivano da fuori regione).

Avevano poi verificato se vi fossero stati dei contatti tra i cellulari sequestrati all’imputato e quelli delle uniche persone offese [7] che avevano in uso un telefono cellulare prima del 26 settembre: IDO, AYAN, NUUR.

Erano emersi contatti solo con le ragazze: 14 contatti con l’utenza in uso ad IDO tra il 13.09 e il 15.09 e 22 contatti con l’utenza in uso ad AYAN tra il 12.09 e il 26.09 (in questo periodo i cellulari di entrambe le ragazze agganciavano celle nella zona di Vicenza mentre il telefono sequestrato all’imputato quella di Firenze). Con riguardo ad AYAN la maggior parte erano state chiamate senza risposta ed in entrata. Con riguardo ad IDO erano tutte senza risposta tranne una. Il 21.09 infatti risultava una conversazione della durata di 2714 secondi, su chiamata dal cellulare Techmade al telefono di IDO (di questo contatto telefonico avevano parlato sia IDO, sia AYAN  in Incidente Probatorio, affermando che non sapevano che il telefono fosse in uso all’imputato e che era stata l’unica volta che avevano parlato con ISMAIL. Infatti avevano cercato di contattare ed avevano infine parlato con una ragazza del campo di prigionia in Libia di nome Aragsan. Era stata poi la stessa che, di sua iniziativa, aveva passato loro ISMAIL. AYAN per la paura suscitatale dalla voce del suo aguzzino, aveva lanciato il telefono a IDO la quale aveva subito riagganciato).

Avevano poi provveduto ad acquisire ed analizzare i tabulati telefonici relativi ai telefoni in uso a IDO, AYAN e NUUR per verificare se vi fossero stati contatti tra loro prima del fermo e l’indagine aveva dato esito negativo.

Erano state inoltre disposte intercettazioni per accertare se emergessero elementi che inficiavano la spontaneità e autenticità delle loro dichiarazioni accusatorie. E dalle intercettazioni effettuate nel corso delle due settimane successive al 26 settembre era emerso che le vittime si erano sentite solo pochissime volte ed in quelle occasioni avevano unicamente ripercorso i fatti del giorno del fermo di ISMAIL affermando di esserne gli artefici e dipingendo Matammud come il loro aguzzino, come colui che li teneva prigionieri, che li picchiava e li torturava.

La Polizia aveva altresì verificato se le persone presenti il giorno del fermo avessero vissuto insieme dal loro arrivo in Italia. Avevano così accertato che le stesse erano state in precedenza ospiti sia del Centro di via San Martini, sia di quello in Via Mambretti, che però erano centri di “transizione” e quindi di breve permanenza (non più di due notti).

Era stata poi la stessa Polizia che dopo il fermo, dopo aver raccolto le prime denunce, aveva portato tutti i ragazzi presenti quel giorno al momento del fermo, nel Centro di Via Mambretti per quella notte, perché era più vicino (cfr p. 13 e 17 verbale di trascrizioni).

Per il resto, era risultato che le uniche due persone offese che avevano sempre avuto rapporti tra loro in Italia erano AYAN e IDO, che erano state insieme prima a Vicenza e poi a Milano.

La Polizia aveva inoltre analizzato il contenuto dei telefoni sequestrati all’imputato. Sul TECHMADE erano state rinvenute delle foto che ritraevano alcune persone stipate su un fuoristrada nel deserto, alcuni profughi stipati su barcone (tra cui ISMAIL), un uomo con la schiena piena di cicatrici[8].

Erano stati quindi verificati i contatti via facebook dell’imputato, ma non venivano rinvenuti dati utili in quanto non era stato rintracciato un account a suo nome[9].

Infine, erano stati disposti accertamenti medico legali per verificare la compatibilità delle lesioni presentate dalle parti lese con la loro descrizione delle violenze subite da parte di Ismail (cfr relazione della dottoressa Cattaneo e relazione del Centro Servizio Violenza Sessuale dell’Ospedale Mangiagalli).

 1.3 La ricerca di altre parti lese

Il Sovrintendete D’Antonio illustrava altresì le indagini esperite per cercare di rintracciare altre persone offese [10] oltre a quelle che erano presenti al momento del fermo (IDO, AYAN, IDRIS, SHAFICI, ABDIRAHMAN ) e quelle che si erano presentate nei giorni successivi perché avevano appreso la notizia (ABDULLAI [11], OMAR [12]).

Si era trattato di indagini molto difficoltose perché nel 2016 erano sbarcate in Italia più di 181.000 persone secondo i dati del Viminale, a volte intorno a 1000 persone in un giorno. Inoltre, alcuni profughi venivano foto segnalati nel porto di sbarco, altri nel primo centro di destinazione. Ed i nomi e le indicazioni fornite al momento dello sbarco dai vari migranti non erano sempre precisi, ma venivano specificati e corretti solo al momento in cui veniva rilasciato loro il permesso di soggiorno per protezione umanitaria ovvero in seguito (così come in effetti avvenuto per le presenti parti civili). Inoltre molti migranti cercavano di evitare di essere foto segnalati per proseguire subito il loro viaggio verso il Nord Europa.

In ogni caso, nel corso di queste indagini, avevano proceduto analizzando insieme alle prime parti lese gli elenchi dei profughi sbarcati con loro o con ISMAIL (29.8.16) [13] per verificare se fossero in grado di individuare qualcuno che era stato nei campi di raccolta in Libia insieme a loro. Così avevano rintracciato Abdi Moulid  AIDOUROUSSE, riconosciuto da NUUR. In questo modo erano riusciti a rintracciare Ali LULU, che aveva viaggiato con l’imputato ed era stata destinata ad un Centro di accoglienza diverso ma sempre in Piemonte.

Avevano inoltre inviato a diverse Prefetture la foto di ISMAIL perché verificassero presso i Centri di accoglienza se alcuni dei profughi lo potessero riconoscere. Così avevano rintracciato due ragazzi che erano sbarcati lo stesso giorno di Matammud: Momim Ahmed NIMCAM e Hamed YUSUF Mahmad, ospiti di una comunità per i minori di Palermo.

Così avevano rintracciato anche ABDULI Abidarahman Abdiaziz che era ospite in una diversa comunità per minori vicina a Como (il teste dal suo arrivo in Italia, nel luglio 2016, non aveva avuto alcun contatto con le altre parti lese che nemmeno conosceva essendo stato nel campo di ISMAIL in un periodo anteriore alle stesse).

Già in forza dei risultati di queste prime indagini si evince pertanto il disinteresse, la genuinità e l’autonomia delle testimonianze rese dalle diverse persone offese.

Infatti tutte le parti lese, che sono sbarcate in Italia a seguito di operazioni di soccorso in mare ed hanno ottenuto il permesso di soggiorno per motivi umanitari, sono dei testimoni ( la giurisprudenza è granitica  nell’affermare che le dichiarazioni dei migranti nei confronti di chi ne ha favorito l’ingresso clandestino debbono considerarsi testimonianze e non chiamate in correità [14]). Inoltre risulta evidente che le stesse  non avevano interesse a presentare una denuncia ai fini di ottenere il permesso di soggiorno per motivi di giustizia, né ai fini di ottenere un risarcimento danni da parte dell’imputato che come loro era giunto in Italia privo di denaro.

E’ emerso poi che l’incontro con Ismail, cui avevano fatto seguito le prime denunce, era stato del tutto casuale (l’imputato era giunto solo la notte precedente a Milano e non era transitato per nessuno dei due Centri di accoglienza dove erano ospiti i ragazzi che avevano attivato l’intervento della Polizia). E  varie parti lese (IDO, AYAN, ABIDARAHMAN e NUUR) avevano cercato in tutti i modi di esporre le loro accuse già in via Sammartini, senza mostrare riflessione e calcolo, ma solo l’urgenza di rivelare quanto subito ad opera dell’imputato, sperando di potersi fidare della Polizia italiana.

Ed ancora è emerso che le persone offese sentite in concomitanza del fermo, con l’eccezione di IDO ed AYAN, non erano state in contatto stabile tra loro, non potevano prevedere di riuscire ad assicurare ISMAIL alla Giustizia e non avevano in alcun modo predisposto e coordinato la loro azione contro di lui. A loro volta, le parti lese rintracciate successivamente non avevano avuto contatti in Italia con i primi denuncianti, erano sbarcate in periodi diversi, erano state in luoghi diversi, erano state rintracciate solo all’esito di laboriose indagini della Polizia [15].

Già questi primi dati escludono pertanto con certezza che le consistenti analogie che caratterizzano i racconti delle persone offese siano frutto di una concertata calunnia ai danni dell’imputato.

Da questi dati emerge infine che il numero di persone offese che sono state sentite nel processo, numero elevato in termini assoluti, anche se esiguo rispetto alle centinaia di persone che a loro dire erano transitate per i campi gestiti da ISMAIL, si spiega solo in ragione delle difficoltà oggettive del loro rintraccio. Pertanto, il fatto che tutte le 17 persone che hanno detto di aver conosciuto ISMAIL nei campi di raccolta in Libia, abbiano altresì rivelato di essere state suoi prigionieri e di aver subito o visto le sue gravissime angherie, senza che si sia levata una sola voce contraria in difesa dell’imputato, senza che sia emersa alcuna contraddizione tra i loro racconti, rappresenta un’altra prova sicura della verità delle loro accuse.

 LE DICHIARAZIONI DELLE PERSONE OFFESE

Occorre ora premettere che all’esito di un esame accurato, sia singolo, sia comparato, delle dichiarazioni delle diverse parti lese è emerso che tutti i testi introdotti dal PM sono risultati assolutamente credibili. Le loro accuse infatti si sono caratterizzate oltre che per spontaneità, disinteresse ed autonomia, anche per originalità, dettaglio, coerenza logica e costanza del loro racconto. Le loro testimonianze si sono confermate reciprocamente e ciascuna delle persone offese non è apparsa animata da intenti calunniatori, ma solo dalla volontà di rimettere alla Giustizia Italiana la valutazione delle condotte dell’imputato.

Nell’illustrare le loro testimonianze si è ritenuto opportuno riportare il quadro complessivo che è emerso dalle loro dichiarazioni con riguardo agli argomenti più generali, richiamando solo alcune delle dichiarazioni dei testi per dare contezza delle particolarità e drammaticità delle loro esperienze. Si è invece ritenuto necessario richiamare con maggior precisione le loro descrizioni con riguardo alle condotte violente poste in essere da ISMAIL, così da permettere di definire con più accuratezza e completezza i comportamenti dell’imputato.

 Nel considerare i contributi dichiarativi di ciascuna delle parti lese occorre peraltro tener presente che le persone offese hanno riferito di essere partite dalla Somalia e di essere state nei campi dove hanno subito le vessazioni da parte di Ismail in momenti o del tutto diversi o solo in parte coincidenti. Pertanto si è ritenuto utile, ai fini di verificare se avessero condiviso la stessa esperienza e facilitare la comparazione tra le diverse testimonianze, premettere alla trattazione dei diversi argomenti del loro racconto, un breve schema con l’indicazione in ordine cronologico dei periodi in cui le parti lese hanno riferito di essere state sequestrate nei campi di Ismail, indicando altresì da dove e quando erano partite dalla Somalia.

Immigrazione 3ABDULI   Gennaio 2015 – Novembre 2015
– partenza da Giggiga Agosto 2014

AIDOUROUSSE Giugno 2015- Novembre 2015
– partenza da Giggiga Gennaio 2015

IDO Novembre 2015- Marzo 2016
– partenza da Mogadiscio 2015

AYAN Novembre 2015- Marzo 2016
– partenza da Mogadiscio 2015

ABDULQANI Dicembre 2015- Aprile 2016
– partenza da Kismayo Agosto 2015

NIMCAM Dicembre 2015- Agosto 2016
– partenza da Bosaso Settembre 2015

SHAFICI Febbraio 2016- Marzo 2016
– partenza da Mogadiscio Gennaio 2016

NUUR Febbraio 2016- Marzo 2016
– partenza da Janame Ottobre 2015

SAFIA Febbraio 2016- Giugno 2016
– partenza da Mogadiscio Ottobre 2013

ABDULLAI Febbraio 2016- Giugno 2016
– partenza da Mogadiscio Dicembre 2015

HOMZE Marzo 2016- Maggio 2016
– partenza da Hargeisa Gennaio 2016

OMAR Marzo 2016- Maggio 2016
– partenza da Hadleha Novembre 2015

YUSUF Marzo 2016- Giugno 2016
– partenza da Mogadiscio Agosto 2016

DAHIR Marzo 2016- Agosto 2016
– partenza da Mogadiscio Luglio 2015

ABDIRHAMAN Aprile 2016- Luglio2016
– partenza da Kismayo 2015

IDRIS Maggio 2016- Luglio 2016
– partenza da Mogadiscio a Marzo 2016

LULU Giugno 2016- Luglio 2016
– partenza da Mogadiscio Ottobre 2015

 2.1  IL FERMO

2.1.1  l’incontro con Ismail il 26.9.17

Come già anticipato al momento dell’intervento della Polizia in via Sammartini erano presenti: IDO, AYAN, NUUR, SHAFICI, ABIDARAHMAN. Era presente anche Ahmed Abdallah SUAD (d’ora innanzi SUAD) che però ha assunto una posizione diversa da quella delle altre parti lese ( la teste, che poco prima dell’intervento della Polizia aveva difeso  ISMAIL, ha poi affermato di non averlo mai incontrato in precedenza).

Come si potrà ora notare comparando le dichiarazioni delle persone offese (sempre ad eccezione di SUAD), le stesse hanno fornito un racconto di questo momento assolutamente conforme e coerente con le indagini della Polizia, attestando tutte come l’incontro con ISMAIL fosse stato inaspettato e casuale.

IDO riferiva che:

un ragazzo, che si chiama Indo, le aveva chiesto se si trovava presso il Centro di via Sammartini e se lei ed AYAN potevano far compagnia ad un altro somalo. Indo le aveva fatto quella richiesta perchè doveva andare a scuola e non sapeva che loro conoscevano ISMAIL “e tutto quello che era successo”. Quando AYAN aveva visto il ragazzo che Indo voleva presentar loro, aveva esclamato: “ma è Ismail!”. In quel momento si era spaventata talmente tanto da non riuscire a muoversi. Non aveva le forze per far niente e non sapeva nemmeno come chiamare la Polizia. Così si era seduta fuori dal Centro. In quel momento erano arrivati degli altri ragazzi che pure erano ospiti nel Centro di via Sammartini e che avevano subito violenze da ISMAIL. Saputo l’accaduto, questi ragazzi avevano voluto cercare ISMAIL che nel frattempo si era allontanato e stava dormendo in un parchetto. I ragazzi sono andati a prenderlo. Qualcuno aveva avvisato la Polizia. Prima che arrivassero gli agenti, ISMAIL aveva detto loro “che volete da me, se volete vi do dei soldi, lasciatemi andare” e loro avevano risposto, “non ci interessano i tuoi soldi, ti denunciamo”. A quel punto erano arrivati i Poliziotti e li avevano portati tutti nei loro Uffici.

Nel frattempo erano arrivate anche due persone, un ragazzo e una ragazza, che erano intervenuti in favore di ISMAIL. Il ragazzo non lo conosceva, mentre la ragazza si chiamava SUAD. Il ragazzo quando si era reso conto che erano in molti ad accusare ISMAIL si è tirato indietro dicendo “va bene, se sono in tanti ad accusarlo non dico niente”, mentre la ragazza aveva continuato ad urlare fino a che non era arrivata la polizia.
Riferiva infine che lei e AYAN, arrivando a Milano, non sapevano che al centro di via Sammartini ci fossero  ragazzi che erano stati nel campo di ISMAIL con loro. Si erano incontrati lì per caso (p. 44 I.P.).

AYAN nel corso dell’Incidente probatorio del 30.1.17 riferiva che:

il 26 settembre era arrivato in via Sammartini Indo, un ragazzo che tempo prima avevano conosciuto nel Centro omonimo (ma che ora alloggiava nell’altro centro di via Mambretti). Mentre stavano parlando era uscito dal Centro ISMAIL. Vedendolo, si era voltata verso Ido e le aveva detto: “è Ismail!”. Aveva quindi spiegato a Indo che si trattava del ragazzo che gestiva il campo di Bani Walid dove erano state loro  e che  picchiava le persone. Nel frattempo ISMAIL si era allontanato.

Indo, a quel punto, era tornato verso il centro di Via Mambretti ed aveva raccontato l’accaduto ai ragazzi di quel centro. Così, un ragazzo di nome Shafici [16] ed un altro, erano arrivati di corsa al centro di Sammartini ed avuto conferma che avevano visto ISMAIL, si erano messi a cercarlo con lei.

Insieme erano passati all’interno di un parchetto dove avevano visto Ismail e altri ragazzi eritrei. Nel passare davanti al gruppetto, aveva fatto finta di parlare al telefono, ma quando aveva visto che Ismail si stava dando alla fuga, lo aveva rincorso ed  insieme agli altri ragazzi lo aveva bloccato nel posto in cui poco dopo era arrivata la polizia.

SHAFICI riferiva che già il 28.8 aveva saputo dell’arrivo di ISMAIL in Italia perché alcuni suoi connazionali, trasferitisi ormai in Germania, gli avevano mandato una foto dell’imputato su un barcone. Da quel momento andava sempre al centro di via Sammartini dove si effettuano le prime accoglienze nella speranza di incontrarlo, fino a che il 29 settembre aveva saputo che era stato visto lì. A quel punto era andato con IDO ed AYAN a cercarlo e lo avevano trovato seduto in un parchetto.

ABDULQANI riferiva che mentre era al Centro di via Mambretti aveva appreso che ISMAIL era arrivato in Italia. Da quel momento, aveva cercato di sapere dove si trovasse fino a che qualcuno gli aveva detto che si trovava alla Stazione Centrale. Insieme ad altri ragazzi era corso al Centro di via Sammartini dove aveva trovato SHAFICI, IDO ed AYAN che trattenevano ISMAIL.

NUUR riferiva che mentre stava dormendo presso il centro di via Mambretti era stato svegliato da ABDULQANI che gli aveva detto che avevano preso ISMAIL. Inizialmente non gli aveva creduto, perché non immaginava che ISMAIL potesse venire in Europa, poi aveva seguito il compagno ed aveva visto che davvero avevano preso ISMAIL. Si era avvicinato a quest’ultimo e gli aveva contestato le sue violenze e l’imputato gli aveva chiesto di non picchiarlo e di non ucciderlo. La discussione si era fatta animata (ricordava che c’era SHAFICI e che aveva ricevuto uno schiaffo) ed a quel punto avevano ritenuto più saggio far intervenire la Polizia e così avevano fatto.

ABIDARAHMAN [17] riferiva che aveva visto ISMAIL circondato da persone, che non aveva mai visto prima, che lo stavano trattenendo. In particolare ricordava due ragazze che avevano chiamato la Polizia.

IDRIS riferiva in termini analoghi la vicenda del fermo di ISMAIL precisando che c’era una donna, SUAD, che aveva difeso ISMAIL dicendo che non potevano toccarlo né denunciarlo perché era un suo parente, un suo cugino. Diceva che ISMAIL era del clan Abgal (cfr. trasc. p.34). Ricordava di aver visto SUAD solo in via Mambretti e non al campo di Bani Walid.

 Le dichiarazioni delle parti lese su questo primo argomento appaiono quindi non solo coerenti tra loro, ma anche conformi a quanto è emerso dal filmato della telecamera di via Sammartini e da quanto appurato dalla Polizia con tutte le indagini in precedenza riportate.

I testi, tra l’altro, hanno spontaneamente riferito di aver avuto in precedenza notizia dell’arrivo in Italia di ISMAIL, ma hanno anche aggiunto di non aver saputo come rintracciarlo.

Le loro dichiarazioni appaiono intrinsecamente logiche. Infatti il comportamento assunto da queste parti lese appare del tutto coerente con il racconto delle angherie subite:  alla vista di ISMAIL le ragazze avevano provato dapprima uno spavento tale da impedir loro di attivarsi, quindi avevano voluto cercare aiuto in altri giovani e  confrontarsi subito con l’imputato, infine avevano deciso di coinvolgere la Polizia con la speranza di poter trovare finalmente ascolto.

Non credibile invece risulta la testimonianza di SUAD che ha negato di aver conosciuto l’imputato prima dell’occasione del suo arresto.

La teste, che fin da subito i giovani avevano indicato come intervenuta in difesa dell’imputato, ha infatti riferito alla Polizia che:

a febbraio 2016 era partita per la Libia. Aveva fatto un viaggio di un mese per arrivare ad un campo denominato MAGAFE’, il cui gestore si chiamava SAAD ed era di nazionalità libica. Era rimasta in detto campo una decina di giorni per essere poi trasferita in un altro campo sulla costa dopo il pagamento del dovuto. Qui era rimasta altri due mesi per poi imbarcarsi alla volta dell’Italia il 25.5.16.

Non aveva mai visto ISMAIL prima del giorno dell’arresto, quando era intervenuta solo perché voleva sedare un litigio fra suoi connazionali, ritenendo che fosse meglio “smetterla” in quanto non erano nel loro Paese e potevano finire nei guai. Mentre la Polizia portava via ISMAIL, due ragazze le avevano riferito di essere state violentate, picchiate e torturate in Libia dallo stesso.

In dibattimento la teste, citata su istanza della difesa dell’imputato, ha confermato le precedenti dichiarazioni. Anche dopo che le era stato contestato che un teste, OMAR, e pure MATAMMUD avevano affermato che era stata al campo insieme a loro, ha continuato a sostenere di non aver mai conosciuto quest’ultimo.

SUAD però è stata riconosciuta sia da OMAR, sia dall’imputato.

Più in particolare, Omar (che era stato presente da marzo a maggio nei campi di ISMAIL in Libia e dal 12.5.16 fino al 27.5.16 a Sabrata), nel riferire delle violenze sessuali perpetrate da ISMAIL, l’ha indicata espressamente come una delle vittime. Ha ricordato infatti di aver visto Suad rientrare nel capannone piangendo e con i vestiti strappati.

A sua volta l’imputato, pur negando le accuse di OMAR, ha sostenuto che SUAD era stata con lui al campo e di non capire come mai la donna avesse ribadito in dibattimento di non conoscerlo. Ha affermato che SUAD era dello stesso clan di sua madre e che si era imbarcata per l’Italia prima di lui.

 La testimonianza di SUAD non smentisce in alcun modo la casualità dell’incontro tra ISMAIL ed i suoi primi denuncianti sopra commentata, ma anzi conferma come immediatamente, ancora in via Sammartini, IDO ed AYAN avessero riportato nei confronti dell’imputato le accuse che hanno poi sempre ribadito.       

La testimonianza di SUAD inoltre non vale a smentire la credibilità delle dichiarazioni di OMAR laddove l’ha indicata come una delle vittime degli atti di violenza sessuale dell’imputato. Infatti, mentre con riguardo alla credibilità di  OMAR il giudizio è positivo, l’attendibilità della SUAD è stata contraddetta dallo stesso imputato che ha affermato che la donna era stata presente con lui nello stesso campo e che l’aveva indicata come sua zia perché era del clan di sua madre. E le parole dell’imputato hanno confermato quelle di IDRIS che ha riferito come la donna, mentre  interveniva in favore di ISMAIL al momento del suo fermo, avesse affermato che ISMAIL era suo parente e ne avesse indicato correttamente il clan di appartenenza.

Per questo non si può credere alla testimonianza di SUAD ed anzi si può ipotizzare che la sua ritrosia/reticenza sia dovuta o al particolare rapporto che vi era stato con l’imputato, o al fatto di essere parenti, od ancora alla sfiducia nelle Istituzioni, sfiducia che già era stata manifestata dalla donna quando era intervenuta per evitare che ISMAIL fosse consegnato alla Polizia e fosse fatta luce sulle accuse proferite dai giovani intorno a lui.

In ogni caso SUAD ha preferito dichiararsi del tutto estranea ai fatti e se non ha rivolto accuse nei confronti di ISMAIL, non l’ha nemmeno difeso.

 2.1.2  I contatti fra le parti e conseguenze del fermo

Anche a detta dell’imputato, le uniche persone che avevano avuto contatti telefonici con lui in Italia erano state IDO ed AYAN che però hanno affermato che ciò era avvenuto in un’unica occasione e solo perché era stata Aragsan a passargli il telefono, aggiungendo che a quel punto avevano interrotto subito la conversazione non volendo avere contatti con lui.

Per quanto riguarda invece i contatti via facebook, NIMCAM (con cui l’imputato ha affermato di aver avuto contatti la sera prima del suo arresto) aveva già riferito spontaneamente  di aver comunicato tramite facebook con ISMAIL che stava cercando un centro di accoglienza, aggiungendo però che aveva tenuto questi contatti solo per cercare di convincerlo a venire nel suo stesso centro per poi poterlo “prendere” (ma Ismail non aveva accettato).

OMAR a sua volta riferiva che era stato contattato via facebook da ISMAIL (che gli aveva scritto “ciao come stai?”), ma affermava di non aver compreso che si trattasse di lui e di aver risposto solo per questo motivo. Sull’account di facebook infatti non c’era il  nome di ISMAIL, ma un nome diverso e non c’era la sua foto (ma quella di una donna con un bambino).

 Si tratta evidentemente di contatti del tutto sporadici che le parti offese hanno convincentemente spiegato non essere dettati da un’amicizia con l’imputato, bensì da ragioni ben diverse (la volontà di tenere i contatti con Aragsan, una donna che come loro ritenevano aver sofferto nel campo, la speranza di poter rintracciare ISMAIL e “prenderlo”, il malinteso sull’utilizzatore del sito facebook). Le indagini della Polizia, inoltre, hanno dato indiretta conferma di quanto asserito dai testi, dal momento che è emerso che Matammud aveva ricevuto da altri il telefono con cui aveva avuto l’unica conversazione con IDO e AYAN  e non aveva un profilo facebook con il suo nome.

 AIDOROUSSE ha riferito che, già prima del 26 settembre, aveva appreso tramite facebook che ISMAIL era arrivato in Italia e che poi era stato avvisato da SHAFICI del fatto che erano riusciti a “prenderlo”.

 Anche questo dato peraltro, pur facendo emergere il naturale desiderio delle parti lese di vedere ISMAIL punito per le sue condotte,  non vale a mettere in dubbio la casualità dell’incontro con l’imputato a Milano e l’assoluta genuinità, disinteresse ed indipendenza della loro denuncia. 

Questo giudizio risulta inoltre suffragato dalle conseguenze che aveva avuto per le parti lese la diffusione della notizia del fermo di ISMAIL. Più persone offese hanno infatti riferito da un lato che pur avendo appreso la notizia non si erano autonomamente attivate a denunciarlo e dall’altro lato di essere state minacciate per la loro azione contro l’imputato.

 ABDULI ha riferito di aver sentito dire tra i somali che era stata arrestata una persona che gestiva i viaggi dalla Libia e che si chiamava ISMAIL.

SAFIA a sua volta non ha nascosto di aver appreso la notizia ed addirittura di essere stata contattata da ABIDARAHMAN che l’aveva invitata a sporgere denuncia anche lei e di non averlo fatto “per non avere casini”.

IDO successivamente al fermo aveva ricevuto un messaggio di minaccia su Facebook  (“se ti vediamo o ti troviamo ti uccidiamo perché tu hai denunciato il nostro ragazzo”).
Anche AYAN aveva ricevuto messaggi di minaccia su Facebook inviatile in data 21.01.17 da un mittente sconosciuto che le diceva che l’avrebbe raggiunta, violentata ed accoltellata.

SHAFICI riferiva che famiglie del clan di Ismail lo avevano contattato su Facebook dicendo che sarebbero venute in Italia il più presto possibile a trovarlo e lo avevano insultato. Riteneva di essere la persona che aveva ricevuto più minacce perché era stato lui a far arrestare ISMAIL.

Anche su questo piccolo frammento del loro racconto le dichiarazioni delle parti lese sono apparse coerenti tra loro, senza che si possano rilevare elementi di smentita alla loro credibilità. Infatti le comprensibili ragioni delle resistenze delle vittime a presentare denuncia contro ISMAIL trovano immediata riprova nelle dichiarazioni di IDO, AYAN e SHAFICI, confermando come il fatto di aver potuto raccogliere le dichiarazioni di ben 17 parti lese rappresenti un risultato notevole, pur tenuto conto delle centinaia di migranti che erano transitate per il campo di Bani Walid. Non si può infatti non considerare che  le parti lese avevano visto ISMAIL porre in essere le sue condotte agendo nell’ambito di una vasta organizzazione che si avvaleva di numerose persone sia in Somalia, sia in altri Paesi del Nord Africa, sia in Italia (cfr sottoparagrafo  2.3.2)

 2.2  Il VIAGGIO

2.2.1 I motivi della partenza dalla Somalia

Attraverso la lettura delle dichiarazioni delle parti lese emerge anzitutto come le stesse avessero affrontato il viaggio diretto all’Europa, da loro denominato “viaggio della speranza”, motivati a lasciare a tutti i costi la Somalia a causa del degrado generale che aveva fatto seguito a lunghi anni di guerra civile, a causa della diffusione di malattie mortali alimentate dalle precarie condizioni igieniche e soprattutto a causa delle azioni di Al Shabaab  [18], responsabile della morte di parenti di alcuni di loro. Ognuna ha riferito motivazioni differenti per la partenza, nessuna ha nascosto di essere stata consapevole delle difficoltà che avrebbe incontrato in questo viaggio e del fatto che gli organizzatori dello stesso non agissero per scopi solidaristici, facendo però chiaramente intendere di non aver potuto prevedere le gravissime violenze a cui sarebbe stata sottoposta ed a cui avrebbe assistito.

Immigrazione 4SAFIA ha riferito che era partita dopo che nel settembre 2013 suo marito era stato ucciso nel corso di un attentato di AL SHABAAB perché non aveva chiuso il negozio come gli era stato ordinato. Nel corso di tale azione lei era stata rapita e tenuta “come oggetto sessuale” a disposizione di uno dei capi. Era scappata dopo circa 15 giorni a seguito di uno scontro a fuoco tra truppe governative ed i membri della cellula terroristica che la teneva prigioniera. Per questo si era recata prima a Nairobi (dove aveva lavorato due anni) e poi in Sudan. Quando si era spostata a Kartoun (perché la situazione nella città di JUBA era diventata pericolosa) le persone che le avevano prestato soccorso e l’avevano portata in tale città, l’avevano sequestrata. Così era venuta in contatto con altre persone che aveva poi verificato far parte di un’organizzazione che suo malgrado l’aveva portata in Libia. Avevano attraversato il deserto su pick up, scortati da uomini armati di mitragliatori, fino ad arrivare presso un campo denominato Saad, dal nome del suo capo.

SHAFICI era partito dalla Somalia perché il gruppo di Al Shabaab aveva ucciso sua moglie e aveva minacciato di uccidere anche lui.

NUUR era scappato dalla Somalia per salvarsi. Era già stato ferito in un attentato di Al Shabaab perché, essendo un autista che trasportava membri del governo, era considerato un nemico (aveva ancora delle pallottole in corpo e aveva perso un dito).

NIMCAM era partito dalla Somalia in seguito ad un attentato di Al Shabaab che era stato originariamente diretto contro suo zio, ma aveva causato la morte di suo padre.

IDO aveva deciso di lasciare la Somalia perché la situazione del Paese non le dava neanche la possibilità di studiare o di uscire di casa, perché sua madre era sempre preoccupata che le potesse succedere qualcosa.  Non era mai stata fuori dal suo paesino prima di questo viaggio.

IDRIS e AYAN erano scappati dalla Somalia a causa della guerra e di tutti i problemi della loro nazione.

HOMZE e ABIDARAHMAN erano partiti dalla Somalia solo per la speranza di trovare una vita migliore in Europa. Il primo voleva raggiungere la Svizzera, il secondo non aveva una meta precisa (era partito con un amico cui si era affidato perché sapeva la via).

2.2.2  Il trasferimento in Libia

Non appare necessario ripercorrere singolarmente ogni tappa del viaggio di ciascun migrante in quanto pur differenziandosi i tempi ed i luoghi di partenza, gli stessi hanno riferito di essere stati presi in carico da una organizzazione che con modalità analoghe aveva gestito i loro trasferimenti,  dall’ETIOPIA (con un primo punto di raccolta nella città di Addis Abeba) o dal SUDAN fino alla LIBIA, per portarli infine ai campi dove avevano incontrato ISMAIL.

Alcuni, prima di partire, ancora in Somalia, avevano preso contatti con le organizzazioni che si occupavano del viaggio (IDO, SHAFICI, AIDOUROUSSE, IDRIS, AYAN e ABDULLAI).

Altri invece erano partiti facendo il primo tratto senza contattare previamente l’organizzazione, ma sapendo comunque a chi rivolgersi una volta giunti in Etiopia (NUUR, ABDULQANI, HOMZE, ABDIRAMAN, NIMCAM, YUSUF, ABDULI, OMAR, LULU, DAHIR).
Altri ancora erano giunti in Sudan da soli o con itinerari diversi:
NUUR e LULU avevano raggiunto il Sudan da soli via mare passando dallo Yemen;
SHAFICI  era giunto a Khartoum in Sudan da solo via aereo;
ABIDARAHMAN si era recato da solo nello Yemen da cui era entrato in contatto con gli organizzatori;
YUSUF si era recato da solo in Kenya, poi tramite l’organizzazione era giunto in Uganda ed infine in Sudan;
SAFIA, era partita nel 2013, aveva raggiunto il Sudan da sola e poi scappata da un altro campo era approdata al campo di Khalifa e di ISMAIL.

Immigrazione 11I profughi venivano spostati solo una volta raggiunto un certo numero, con  autobus o dei pick-up guidati e scortati da uomini armati con fucili AK.  Il confine tra il Sudan e la LIBIA veniva attraversato a piedi per evitare la Polizia. Non sempre l’obiettivo veniva raggiunto (IDO era stata fermata e arrestata proprio nel passaggio del confine, LULU era stata arrestata in Libia), ma l’organizzazione si attivava per farli rilasciare.

Nel corso di questi trasferimenti, se qualcuno si sentiva male o semplicemente cadeva dai pick-up, veniva lasciato a morire nel deserto.  

Tutte le persone offese hanno affermato di non aver mai conosciuto ISMAIL prima di arrivare in Libia.

2.2.2  Il corrispettivo del viaggio

Nessuna delle parti lese aveva saputo a priori a quanto ammontasse la somma totale dovuta per il viaggio. I più lo avevano scoperto solamente una volta giunti al campo di Bani Walid dove avevano incontrato ISMAIL, altri quando era stato loro richiesto il pagamento delle tratte già effettuate. A nessuno erano stati richiesti  acconti, tantomeno bonifici a mezzo banca.

HOMZE riferiva che una volta giunto ad Addis Abeba molte persone di loro iniziativa gli avevano chiesto quali fossero le sue intenzioni e dove volesse andare. Si erano proposte di aiutarlo ad organizzare il suo viaggio nelle tappe successive e così erano giunti ad un accordo. Ricordava che sul momento gli organizzatori non avevano accennato ad una somma da pagare e al suo ammontare, ma lui si era comunque immaginato di dover pagare qualcosa prima o poi. Gli organizzatori si erano però limitati a dirgli: “Ti accompagniamo noi!”.

ABDIRAMAN riferiva che una volta giunto nello Yemen si era completamente affidato a delle persone nella gestione dei suoi soldi e del suo viaggio. Non aveva però avuto nessun tipo di trattativa con loro per stabilire il compenso. Sosteneva di non essere il tipo di persona che chiedeva insistentemente dove erano diretti e con chi, visto che gli organizzatori dicevano che lo avrebbero portato in un posto migliore.

ABDULQUANI riportava invece di aver contattato dei trafficanti in Etiopia che lo avevano messo in contatto con l’organizzazione del viaggio, ma non avevano precisato la somma da pagare. Era stato solo tranquillizzato sul fatto che comunque non si sarebbe trattato di tanti soldi, e che forse alla fine non avrebbe neanche dovuto pagare.

AYAN aveva contattato degli organizzatori a Mogadiscio che le avevano chiesto 500 dollari per la prima tratta fino all’Etiopia. Le hanno poi chiesto 4.800 dollari una volta arrivata al primo campo come corrispettivo della tratta dall’Etiopia alla Libia.

SHAFICI dichiarava di non aver saputo l’ammontare della somma dovuta per il viaggio quando aveva contattato gli organizzatori in Somalia. Lo aveva saputo solo una volta arrivato in Sudan.

IDRIS quando aveva contattato gli organizzatori non aveva ricevuto indicazioni su quanto avrebbe dovuto pagare. Costoro gli avevano detto che glielo avrebbero comunicato una volta arrivato in Libia. Arrivato in Libia aveva pagato in due tranches: prima 4.500 dollari e poi 2.500 dollari.

YUSUF aveva contattato gli organizzatori in Kenya. Costoro non avevano indicato una cifra esatta, rassicurandolo che si sarebbe trattato di “pochi soldi”. Alla richiesta di precisare l’ammontare avevano detto “circa 2.000 dollari”.

NIMCAM parlando con gli organizzatori ad Addis Abeba aveva detto di non avere la somma da loro richiesta (3.000 dollari), ma solo 1.500 dollari. Gli avevano detto che sarebbero bastati.

Il pagamento avveniva sempre tramite il sistema Hawala (ovvero tramite rimesse a persone di fiducia individuate dall’organizzazione e non tramite circuiti bancari).

  • I campi di raccolta in Libia

Dalla lettura complessiva delle deposizioni delle persone offese emerge che il periodo in cui i testi erano stati in contatto con l’imputato in Libia corrisponde ad un lasso di tempo circoscrivibile tra gennaio 2015 ad Agosto 2016.

Emerge altresì che i campi in cui avevano incontrato ISMAIL erano due: quello sito presso Bani Walid, vicino al deserto ed alle montagne, e quello di Sabrata, sito presso la costa, luogo da cui erano transitati tutti prima di essere trasferiti via mare alla volta dell’Europa, dopo aver ultimato il pagamento (alcuni però senza fermarsi nel campo, ma imbarcandosi subito).

Alcune parti lese, prima di arrivare nei campi gestiti da ISMAIL, erano transitate per altri campi o della stessa organizzazione o di organizzazioni diverse ed il trattamento era stato ancora una volta connotato da gravissime privazioni e maltrattamenti.

Alcune delle parti lese, arrivate in Libia, erano state portate direttamente al campo di Bani Walid gestito da Kalifa e da ISMAIL (campo chiamato, dal nome del primo, Kalifa). Altre invece avevano riferito di essere state prima in un altro campo, gestito sempre dalla medesima organizzazione o comunque da organizzazioni che operavano in modo analogo (ed era stato lì che gli organizzatori, con il loro cellulare, gli avevano fatto chiamare i familiari chiedendo loro il versamento della prima parte della somma, circa 4.800 dollari che copriva i costi del viaggio effettuato fino al quel punto. Una volta provveduto al pagamento erano stati trasferiti nel campo di Bani Walid, dove era stato loro richiesto di pagare ulteriori 2.200 dollari per potersi imbarcare). LULU aveva incontrato ISMAIL solo a Sabrata.

AIDOUROUSSE ha raccontato di essere arrivato dapprima in un campo denominato Musa e di esserci rimasto per circa sei mesi. Poi l’avevano trasferito a Bani Walid, infine l’avevano portato sulla costa e fatto imbarcare direttamente senza altre tappe (per questo non faceva riferimento al campo di Sabrata).
YUSUF ha parlato di tre i campi, indicando il primo in maniera generica come “il campo nel deserto”, il secondo come il campo di Bani Walid ed il terzo come quello di Sabrata.
SAFIA ha detto di essere arrivata al campo di ISMAIL dopo essere stata nel campo di SAAD, in cui aveva avuto un trattamento inumano come nel successivo, ma da cui era riuscita a fuggire (trattavasi di un campo che probabilmente apparteneva ad un’altra organizzazione, tanto che  al campo di Khalifa non era stata punita per la sua fuga dal primo, ma le era stato solo richiesto di pagare integralmente il costo del viaggio maggiorato di 500 dollari) [19].

HOMZE riferiva che una volta giunto in Libia lo avevano portato nel deserto nella zona di Bani Walid, in uno spazio aperto circondato da palme di datteri. Una volta ricevuto il primo pagamento da parte dei famigliari gli organizzatori lo avevano spostato nel campo dove stava Ismail, dove era rimasto per quattordici giorni. Ricordava che questo campo era chiamato “Khalifa 2”. La mattina dopo il suo arrivo aveva dovuto chiamare nuovamente i suoi famigliari per chiedere altri 2.200 dollari per prendere il barcone.

IDRIS raccontava che in Libia era stato prima portato in un campo di nome “Chak”(fonetico) nei pressi di Hagger. Una volta pagato quanto preteso per la prima tratta del viaggio, era stato spostato al campo di Bani Walid da cui era partito per la traversata in mare dopo altri due mesi ed il pagamento della residua somma richiesta.

Tutti riferivano che arrivati nei campi gestiti da ISMAIL il pagamento del prezzo del viaggio (l’intero, corrispondente a 7000 dollari, o il residuo) era stato richiesto loro dall’imputato che aveva intimidito loro e le loro famiglie dicendo che sarebbero stati picchiati ed uccisi e che non sarebbero stati imbarcati alla volta dell’Europa sino a quando non avessero pagato l’intera somma.

2.2.5    Le telefonate alla famiglia

Le parti lese transitate per il campo di Bani Walid hanno riferito che era stato ISMAIL a dire loro il prezzo da pagare per proseguire nel viaggio ed a costringerli a chiamare le famiglie in sua presenza prospettando che se non avessero pagato sarebbero morti.

Nuovi contatti con la famiglia avvenivano raramente (una o due volte secondo DAHIR, mai più secondo molti altri testi) e comunque solo sotto sorveglianza di ISMAIL.

Anche nel corso delle successive telefonate venivano picchiati e le comunicazioni servivano solo per far pressione sulle famiglie perché pagassero.

HOMZE ha riferito che già nel primo campo dove era stato trasportato gli organizzatori avevano chiesto a ciascun viaggiatore di farsi mandare dalla famiglia 4.800 dollari, con la minaccia di essere picchiati. Una volta trasferito nel campo di Ismail aveva dovuto chiamare nuovamente i suoi famigliari per chiedere altri 2.200 dollari per prendere il barcone, con la minaccia questa volta che sarebbe stato ucciso se la famiglia non avesse pagato.

IDO ha raccontato che Ismail, non appena arrivata al campo, le aveva detto di chiamare casa e di far mandare subito i soldi altrimenti sarebbe morta. La madre aveva detto che al momento non ne aveva e che aveva bisogno di tempo. Allora Ismail aveva iniziato a picchiarla e le aveva detto, fra l’altro, che non poteva avere nessun altro contatto con i genitori finché non avessero mandato i soldi.

ABDULQUANI ha riportato che era Ismail a gestire le telefonate alla famiglia, la prima la faceva fare al migrante, le successive le faceva da solo.

SHAFICI ha sostenuto che Ismail gli aveva detto di fargli mandare 7.000 dollari dai famigliari. Dal momento che non era riuscito a mettersi in contatto subito con loro, perché il loro telefono era spento, Ismail lo aveva picchiato. Il giorno dopo  Ismail aveva parlato con sua madre e le aveva detto che se entro pochi giorni non fossero arrivati i soldi avrebbe venduto suo figlio ai libici. Da quel momento in poi non aveva più avuto la possibilità di parlare con i suoi genitori.

IDRIS ha confermato  che Ismail diceva a tutti i nuovi arrivati di chiamare i famigliari e pagare al più presto i soldi. Diceva che avevano sette giorni di tempo per provvedervi, altrimenti il loro caro sarebbe morto. Dopo la prima telefonata era Ismail che teneva i contatti ed era lui a comunicare ai migranti quando il pagamento era stato effettuato.

NUUR ha affermato che ogni persona, la mattina del suo arrivo, aveva due minuti per telefonare ai famigliari e dire loro che se non avessero pagato sarebbe stata torturata con l’elettricità, o che sarebbe stata uccisa. Nessuno poteva avere altri contatti con i famigliari, neanche una volta pagata la somma richiesta.

SAFIA ha ricordato invece che la telefonata alla sua famiglia le era stata fatta fare da Hajii (un uomo anziano claudicante), che comunque agiva su ordine di ISMAIL. Dopo la prima telefonata ISMAIL li convocava periodicamente e se vedeva che la famiglia non aveva ancora pagato ordinava a Hajii di picchiarli.

Alla partenza ogni migrante veniva privato del proprio telefono cellulare ed in ogni caso nei campi di raccolta libici nessuno lo aveva.

IDO ricordava che un giorno mentre erano fermi in un punto di raccolta in Etiopia un uomo dell’organizzazione aveva raccolto in una scatola tutti i loro telefoni e li aveva consegnati ad un altro uomo, rimasto all’esterno della stanza affinchè se ne disfacesse.

HOMZE riferiva di essere già partito senza telefono.

IDRIS era stato privato del suo telefono quando era arrivato ad Addis Abeba.

SHAFICI non aveva più né i documenti né il cellulare perché glieli aveva presi Ismail una volta arrivato al campo di Bani Walid.

DAHIR riferiva che “a nessuno di noi all’interno del campo era permesso avere un telefono” e che “nessuno di noi migranti arrivava al campo con un telefono”.

2.2.6   Il trasferimento sulla costa dopo il pagamento

Pagata la cifra richiesta, il trasferimento dal campo di Bani Walid alla costa avveniva a mezzo di autobus dell’organizzazione, guidati dai sorveglianti del campo. Si trattava di circa 240 km che in genere venivano percorsi in un giorno e una notte. Anche in questa fase, se qualcuno cadeva dal camion o stava male veniva abbandonato per la strada, che per la prima parte era nel deserto.

Una volta giunti sulla costa alcuni migranti venivano imbarcati immediatamente, altri invece venivano trattenuti in un campo, vicino a Sabrata, sempre gestito dall’organizzazione, in attesa probabilmente delle migliori condizioni climatiche.

Immigrazione 14Anche nel campo di Sabrata vi era un capannone dove dormivano centinaia di persone, ma c’era una certa libertà di movimento e, quel che più rileva, non c’erano più violenze. Questo miglior trattamento era giustificato dal fatto che tutti quelli che vi accedevano avevano già completato il pagamento (per chi invece non lo aveva fatto, come per esempio LULU e SAFIA, continuavano la reclusione e le violenze).

Gli unici testi che hanno affermato di non aver pagato la somma dovuta sono ABDULI, che ha affermato di essere scappato, LULU, che ha riferito di essere riuscita a partire con l’imputato, quando era stato smantellato il campo, avendo impietosito un guardiano libico, e SAFIA, che era riuscita ad arrivare a Sabrata intrufolandosi con altri profughi ed era stata lasciata nel campo sulla costa dopo che ISMAIL si era allontanato per imbarcarsi.

Questi testi hanno avuto un’esperienza particolare ed appare pertanto opportuno riportarla ora in breve così da poterne tener conto poi nell’analizzare le loro dichiarazioni su altri argomenti.

ABDULI [20] ha riferito che:

era arrivato da solo in Etiopia dove aveva contattato gli organizzatori del viaggio della speranza che lo avevano portato in Sudan, dove gli avevano trovato un lavoro. Aveva lavorato per due settimane per pagarsi la tratta già effettuata. Poi, nel gennaio 15, lo avevano “consegnato” a delle persone che lo avrebbero condotto in Libia. Dopo 13 giorni di viaggio era arrivato in un campo chiamato Khalifa, comandato da ISMAIL.

Qui era stato sottoposto a varie angherie da parte dell’imputato. Una mattina, però, mentre era fuori dal capannone a lavorare nei campi, approfittando di un momento di distrazione dei guardiani, era riuscito a scappare con un altro ragazzo. Al tramonto si erano incamminati verso Sabrata e vi erano giunti dopo vari giorni chiedendo informazioni ed aiuto per la strada. A Sabrata avevano incontrato un signore a cui avevano raccontato la loro storia. Erano stati divisi e lui era rimasto a lavorare per questo uomo per circa 10 mesi (da novembre 2015 a luglio 2016). Questo signore gli aveva assicurato vitto ed alloggio in cambio del suo lavoro. Lo aveva trattato bene ed infine lo aveva portato da un altro uomo che lo aveva fatto imbarcare.

LULU ha riferito che:

aveva contattato l’organizzazione a Khartoum che le aveva chiesto 2.500 dollari per proseguire il viaggio. Aveva detto che aveva con sé solo 1.000 dollar , ma l’avevano portata lo stesso con dei pick-up fino in Libia e qui in un campo di raccolta, dove aveva consegnato i suoi 1.000 dollari. Dopo una settimana era stata trasferita in un altro campo, gestito da un ragazzo somalo di nome Abdi Aziz. Qui era rimasta per circa un mese fino a quando era intervenuta la Polizia libica che aveva arrestato tutti, sia i migranti sia i guardiani.

Era rimasta in prigione per tre mesi e qui era stata picchiata e violentata da una decina di poliziotti.

Infine era arrivato un libico che aveva detto a lei ed ad altri 14 che erano stati comprati da ALI BUR (che poi aveva appreso chiamarsi anche Khalifa). Erano stati quindi portati ad un campo sulla costa dove aveva conosciuto ISMAIL.  ISMAIL aveva subito detto loro che per proseguire nel viaggio verso l’Europa dovevano pagare altri 2000 dollari, altrimenti li avrebbe uccisi. Aveva cercato invano di impietosirlo in ragione della sua età, essendo la persona più vecchia presente nel campo.

Lei e gli altri 14 somali comprati da ALI BUR erano stati tenuti segregati in una stanza a parte. Venivano portati fuori da un guardiano solo per andare in bagno. Qui, una volta, aveva avuto un brevissimo colloquio con un’altra donna che le aveva raccontato di essere stata picchiata e le aveva detto che doveva trovare al più presto i soldi se voleva evitarlo.

Qualche tempo dopo, il giorno in cui si era poi imbarcata, era entrato nella stanza dove era reclusa un libico che si era interessato a lei, visto che era anziana. Il guardiano si era impietosito e l’aveva fatta partire con gli altri. Peraltro, quando era partita, aveva visto che anche il capannone era vuoto, non c’era più nessuno.

SAFIA ha riferito che:

dopo aver trascorso circa 4 mesi nel campo di Bani Walid, era riuscita a raggiungere Sabrata senza pagare il dovuto, perché era riuscita ad aggiungersi di nascosto al gruppo che veniva trasferito sulla costa.

A Sabrata però ISMAIL aveva subito scoperto il suo inganno e l’aveva picchiata quotidianamente fino alla partenza di quest’ultimo per l’Italia avvenuta circa 45 giorni dopo.

Era riuscita ad evitare di pagare quanto richiesto perché dopo che ISMAIL aveva lasciato il campo di Sabrata per imbarcarsi, era rimasta pressoché da sola. Il giorno dopo qualcuno l’aveva aiutata ad uscire dalla stanza dove era reclusa. Era rimasta però ancora un mese in Libia presso un uomo che, dopo averle promesso di aiutarla ad imbarcarsi, l’aveva trattenuta come prigioniera a casa sua fino al 2 ottobre, quando, approfittando dello stato di ubriachezza del suo carceriere, era riuscita a fuggire. A quel punto si era recata sulla costa ed era  riuscita a mescolarsi al gruppo dei profughi che si stavano imbarcando. Nel corso del viaggio in mare erano stati intercettati da una nave italiana ed era stata tratta in salvo.

 2.2.7  Il periodo in cui ISMAIL è stato presente a Bani Walid ed a Sabrata

La maggior parte dei testi, nel riportare le loro esperienze, ha riferito di essere stata in balia di ISMAIL solo a Bani Walid in un periodo di tempo che va dal gennaio 2015 alla fine di maggio 2016.

La presenza di ISMAIL nel campo di Sabrata è stata attestata invece solo dai testi che si sono imbarcati per l’Italia per ultimi e risulta essersi protratta dalla fine di maggio 2016 al momento del suo imbarco alla fine di agosto.

In precedenza Ismail era rimasto al campo di Bani Walid quando i profughi partivano alla volta di Sabrata. Solo NUUR ed OMAR hanno raccontato che li aveva accompagnati nel trasferimento fino alla costa. Ma mentre NUUR, che si era imbarcato per l’Italia nel marzo 16, ha riferito anche che Ismail era tornato indietro, OMAR ha affermato che ISMAIL era rimasto a Sabrata, dal suo arrivo in questo campo al suo imbarco (ovvero dal 12.5.16 al 17.5.16).

Le dichiarazioni di OMAR, che non contrastano, ma completano quelle di NUUR,  trovano conferma in quelle di DAHIR (imbarcatosi nell’agosto 16), in quelle di LULU (imbarcatasi con l’imputato) ed in quelle di SAFIA (imbarcatasi nell’ottobre 16). Secondo DAHIR, l’imputato si era trasferito a Sabrata prima del Ramadan (dunque prima del 6 giugno 2016). LULU ha descritto solo il campo sulla costa riferendo di esserci arrivata a luglio 2016. SAFIA infine riferiva di aver subito le vessazioni di ISMAIL sia a Bani Walid, sia a Sabrata, anzi in particolar modo in questo ultimo campo dove era rimasta 45 giorni prima della partenza dell’imputato avvenuta a fine agosto 2016.

Del periodo trascorso a Sabrata non ha parlato HOMZE, che però era stato nello stesso solo 5 giorni (e si era imbarcato il 30.5.16).

Con riguardo al periodo trascorso al campo di Sabrata, solo la teste SAFIA, come si è detto, riferiva di aver subito lei stessa violenze (ma la teste ha anche raccontato di essere riuscita ad arrivare a Sabrata senza che i suoi familiari avessero pagato tutta la somma richiesta). Altri testi (OMAR e YUSUF), d’altra parte, pur avendo affermato che in questo campo le violenze ed i controlli erano praticamente cessati, hanno riferito della morte di un ragazzo di nome AOUALE, a causa delle percosse in precedenza subite (cfr paragrafo 2.5).

Coerente risulta infine il racconto di LULU e SAFIA a proposito delle condizioni del campo nell’agosto 2016 quando ISMAIL lo aveva lasciato. Entrambe hanno riferito infatti che nel campo non era rimasto più praticamente nessuno (elemento che rileverà per comprendere le ragioni della partenza di ISMAIL dalla Libia).

Appare interessante notare come proprio a proposito del campo di Sabrata l’esperienza ed il racconto dei testi sia stato diverso, vuoi perché non tutti vi erano stati o almeno non in concomitanza con ISMAIL, vuoi perché solo alcuni di loro non avevano ancora pagato la somma richiesta.

Peraltro, proprio le differenze nella loro descrizione dei fatti, oltre a mostrare l’originalità ed autonomia della loro testimonianza, palesa altresì che laddove si comparino le loro dichiarazioni, tenendo a mente quando gli stessi erano stati nei campi di ISMAIL e quando si erano imbarcati dalle coste libiche, si può apprezzare come il loro diversificato racconto offra nel contempo un quadro complessivo del tutto coerente, concorrendo a confermare la sicura attendibilità delle parti lese.

2.2.8 I soccorsi e l’ingresso in Italia, i contatti dell’organizzazione in Europa

Tutti i migranti hanno raccontato di aver percorso l’ultima tratta per l’Italia in condizioni precarie su barconi sovraccarichi di passeggeri, in condizioni che li hanno esposti a pericolo di vita.

Una volta giunti in prossimità delle coste erano stati intercettati ed erano stati aiutati da navi straniere o della Marina italiana a giungere in Italia.

Soccorsi ai migrantiISMAIL aveva dato ad alcuni di loro dei contatti da attivare in Italia per poter proseguire verso il Nord Europa.

HOMZE era arrivato in Italia viaggiando su un barcone di due piani, con circa trecento persone e guardie armate. Il barcone era stato intercettato da una nave italiana che li aveva poi portati fino alla costa.

ABDIRAMAN era su un barcone che si era lacerato causando la morte di sedici persone. Una volta giunto in prossimità di Reggio Calabria era stato accolto da navi di soccorso italiane e portato in ospedale.

IDO aveva fatto il viaggio sentendosi tra la vita e la morte per le condizioni del mare. La barca si era spaccata facendo entrare acqua. Erano poi stati salvati da una nave italiana, con persone vestite di blu.

ABDULQUANI aveva viaggiato su una barca in cui entrava tanta acqua, per cui avevano dovuto passare tutta la notte a cercare di svuotarla. Erano arrivati vicino alla Calabria dove erano stati salvati dai militari italiani.

SHAFICI si era imbarcato con altre settecentottanta persone. Erano stati salvati da una nave tedesca che li aveva portati sulla costa della Sicilia.

IDRIS aveva fatto due giorni di viaggio dal campo di Bani Walid fino alla costa dove era stato portato con dei gommoni su una nave che era al largo. Nei gommoni non potevano parlare altrimenti sarebbero stati picchiati. Giunti vicino alle coste italiane tutti i viaggiatori erano stati presi da una nave francese e portati su una nave militare italiana. Una volta sbarcato era stato subito portato in ospedale perché aveva delle forti allergie che si erano scatenate su tutto il corpo.

Infine, alcuni testi, tra cui IDRIS, hanno riferito che l’organizzazione aveva anche in Italia dei “contatti” che si occupavano di aiutare gli immigranti appena sbarcati a raggiungere il Nord Europa, in cambio di altri soldi. Già prima di partire dalla Libia, lo stesso ISMAIL aveva fornito loro “i contatti” da attivare.

2.2.9  Il momento dello sbarco in Italia per i testi che avevano viaggiato con ISMAIL

Nessuna delle parti lese ha riferito di aver denunciato ISMAIL prima del 26 settembre e tale comportamento può ben spiegarsi in virtù del fatto che conoscevano solo il suo soprannome e non sapevano dove rintracciarlo.

Peraltro, anche la mancata denuncia da parte delle tre persone offese che hanno riferito di essere giunte in Italia insieme all’imputato, ha trovato congrua spiegazione. Si tratta di YUSUF, NIMCAM e LULU ed i primi due hanno riferito di aver subito gravissime violenze da parte di ISMAIL. LULU ha invece affermato di aver subito le peggiori violenze prima di arrivare al campo dell’imputato e di essere riuscita ad imbarcarsi infine senza pagare la somma richiestale.  Appare quindi interessante verificare soprattutto perché YUSUF e NIMCAM non avessero agito contro ISMAIL subito, al momento del loro arrivo in Italia.

YUSUF ha riferito che sebbene avesse visto Ismail sulla nave che era intervenuta a salvarli in mare, nonché a Trapani al momento dello sbarco, non aveva avuto il tempo materiale di denunciarlo (come lui e molti altri avrebbero voluto). In quei momenti c’era stata infatti moltissima confusione, erano sbarcate insieme centinaia di persone. Non comprendeva la lingua e non sapeva come farsi capire. Inoltre  Ismail era sempre rimasto lontano da lui. Dopo due giorni, fra l’altro, erano stati smistati in campi differenti e lo aveva definitivamente perso di vista.

NIMCAM ha raccontato che non era certo che ISMAIL (che ricordava peraltro aver viaggiato con UBAX, una donna con la quale viveva quando era a Bani Walid) si fosse imbarcato sul suo stesso gommone. Aveva visto con sicurezza Ismail una volta sbarcato a Trapani. Insieme agli altri avrebbe voluto prenderlo, ma lui era scappato, o almeno nella confusione lo aveva perso di vista, anche perché erano stati divisi per età ed erano poi stati mandati in centri di accoglienza diversi. Dal giorno in cui era stato inserito nella comunità per minori vicino a Palermo non aveva più rivisto ISMAIL né gli altri profughi. Non aveva nemmeno saputo subito che l’imputato era stato arrestato.
2.2.10 Alcune osservazioni sull’attendibilità delle dichiarazioni delle parti lese su questi primi argomenti

               Ciascuna delle parti lese ha raccontato in maniera precisa e dettagliata dapprima i motivi che l’avevano spinta ad intraprendere a tutti i costi “il viaggio della speranza”, quindi le tappe dello stesso, riferendo quando aveva contattato l’organizzazione che aveva gestito i suoi trasferimenti, specificando se alla partenza avesse conosciuto l’effettivo ammontare della somma dovuta, precisando in quali campi avesse soggiornato, quando, da chi e come le era stato richiesto il prezzo per il viaggio al cui pagamento era stato subordinato non solo il suo trasferimento sulla costa ed il suo imbarco per l’Italia, ma anche la sua stessa permanenza in vita.

                Ciascuna ha descritto un viaggio che seppur affrontato con luoghi di partenza e tempistiche parzialmente diverse, pure risulta del tutto analogo a quello delle altre, lasciando nel contempo spazio a quelle soggettive differenze che si pongono come rafforzative, in termini di veridicità e genuinità, dell’attendibilità delle loro deposizioni.

                Per quanto concerne più direttamente l’imputato si nota che tutte le persone offese hanno affermato di averlo conosciuto solo nei campi in Libia. Inoltre hanno coerentemente indicato quando lo stesso era stato a Bani Walid e quando a Sabrata [21].

               Nonostante fossero arrivate in tempi ed in  momenti diversi nel campo di Bani Walid, tutte  le parti lese hanno raccontato in modo fattuale ed intrinsecamente logico, nonché in modo complessivamente coerente, quali fossero stati i comportamenti di ISMAIL e come la sua azione si fosse coordinata con quella degli altri membri dell’organizzazione che avevano gestito il loro viaggio. 

Infatti hanno descritto tutte i modi brutali con cui l’imputato, con l’ausilio anche dei guardiani libici, si assicurava il pagamento del prezzo del viaggio e l’ordine nel campo, gestendo così aspetti all’evidenza determinanti al fine di assicurare  il  profitto  illecito cui miravano gli organizzatori del viaggio.

Anche se le parti lese hanno riferito di non aver saputo a priori il costo del viaggio questo non mette in dubbio la loro credibilità, dal momento che hanno anche spiegato che erano voluti partire ad ogni costo dalla Somalia e che confidavano sull’aiuto dei familiari che si sarebbero attivati per reperire la somma richiesta facendo collette tra parenti e amici. Inoltre è intuibile che agli organizzatori del viaggio non conveniva indicare il costo complessivo del viaggio dal momento che così avrebbero rischiato di dissuadere qualcuno dall’intraprenderlo. Non importava averlo convenuto con i profughi, avere un contratto che recepisse l’impegno al pagamento di questi ultimi, dal momento che non avrebbero potuto farlo valere per le vie legali e che la via più sicura per ricevere il corrispettivo richiesto per la loro illecita prestazione era la minaccia [22].

Tutti i testi hanno affermato di essere stati minacciati di morte se non avessero pagato e che fino a quando la famiglia non avesse pagato, non avrebbero potuto lasciare il campo e recarsi sulla costa. In riferimento alle modalità di pagamento del viaggio tutti hanno parlato di un sistema ben preciso denominato “hawala”(che il teste ABDULQANI ha spiegato consistere nel versamento del denaro nelle mani di un uomo di fiducia indicato da Ismail, aggiungendo che non era possibile pagare con modalità diverse).

Gli unici a non aver versato tutta la somma richiesta sono stati SAFIA (che però aveva pagato caro il suo inganno per giungere a Sabrata e poi aveva potuto lasciare il campo solo perché lo stesso era stato abbandonato), ABDULI (che ha affermato di essere scappato a Bani Walid e di aver poi trovato un libico che aveva provveduto per lui) e LULU (che ha affermato di aver impietosito una guardia libica al momento dello smantellamento del campo). La particolarità delle loro esperienze dà conferma dell’originalità e genuinità del loro racconto e quindi della sua credibilità e di certo non smentisce l’efficienza dell’organizzazione criminale che aveva gestito insieme ad ISMAIL il loro viaggio. Infatti, anche se l’imputato ha tacciato di inverosimiglianza tutta la testimonianza di ABDULI, proprio a partire dall’affermazione del teste di essere riuscito prima a scappare e poi ad imbarcarsi senza aver pagato, la parte lesa ha riferito in modo coerente quanto le era accaduto. Le sue dichiarazioni sull’argomento hanno trovato un indiretto riscontro in quelle di LULU e SAFIA, che concorrono a dimostrare che era possibile con un po’ di fortuna sottrarsi ai controlli ed alle regole dell’organizzazione. D’altronde il numero di migranti che venivano gestiti e trasferiti di volta in volta spiega agevolmente le eccezioni alle regole, nonostante l’organizzazione fosse dotata di molti mezzi e uomini per controllare ogni fase del viaggio ed assicurarsi il massimo profitto dai migranti (che venivano trattati in modo disumano così da ottenere il pagamento da parte delle famiglie del prezzo richiesto e nel contempo risparmiare sui costi e fiaccare le loro capacità di reazione). 

 La veridicità di questa parte del racconto delle parti lese veniva infine avallata  dalle dichiarazioni dell’imputato che aveva riferito di essere partito dalla Somalia, di aver contattato l’organizzazione e di essere arrivato in Libia passando dal Kenya e dal Sudan. A quel punto gli era stato chiesto il pagamento della residua somma per un totale di 7000 dollari.

Solamente l’imputato peraltro ha sostenuto di aver versato tramite banca una somma di 2000 dollari a titolo di acconto (cfr paragrafo 4), ma l’illiceità stessa dell’azione degli organizzatori del viaggio palesa come questa modalità di pagamento debba ritenersi inverosimile e comunque non quella usuale.

Si osserva infine che le modalità con cui sono stati gestiti gli spostamenti di varie centinaia di migranti dall’Etiopia o dal Sudan alla Libia e poi all’Europa mostrano un grado di programmazione e di organizzazione tale da palesare la sussistenza di un gruppo di persone che agiva in modo stabile e coordinato per provvedere al traffico illecito dei profughi in una pluralità di Stati.

L’organizzazione era dotata evidentemente di numerose persone e cospicui mezzi per realizzare il suo programma delittuoso (aveva propagandato in diversi Paesi la sua attività, aveva appartamenti separati dove raccoglieva i viaggiatori in Etiopia o in Sudan, aveva veicoli atti al trasporto di  numerose persone, centri dove le tratteneva sino al pagamento che contenevano fino a 500 migranti, grandi barconi  per trasferire  centinaia di persone alla volta, guardie che controllavano tutti i trasferimenti ed i campi di raccolta, numerose armi di cui dotare i sorveglianti).

L’azione degli uomini dell’organizzazione, nei diversi Stati e nelle diverse fasi del viaggio, avveniva secondo un identico modus operandi nel corso del tempo (del tutto analoga è la descrizione del viaggio da parte delle persone offese che erano giunte in Libia ancora nel 2015 e di quelle che vi erano arrivate nel 2016).

L’azione di ciascun membro dell’organizzazione e quella di ISMAIL erano coordinate tra loro. Infatti nei vari tratti del viaggio uomini diversi agivano con uguali modalità, si spostavano e cambiavano secondo uno schema evidentemente preordinato. A sua volta l’imputato, nel richiedere le somme ancora dovute (avvalendosi anche della minaccia di una pluralità di guardiani libici), conteggiava quanto già versato per le tratte precedenti.

2.3  I MIGRANTI ERANO PRIVATI DA PARTE DI ISMAIL DI OGNI LIBERTA’

2.3.1  La struttura dei campi di Bani Walid e di Sabrata

Vi è assoluta concordanza tra le testimonianze nella descrizione del campo di Bani Walid.

A detta di tutte le parti lese questo era dotato di un grandissimo hangar all’interno del quale venivano tenute recluse circa 500 persone. Intorno a questo capannone c’era un cortile sorvegliato da uomini libici armati di fucili, rinchiuso a sua volta da mura di cinta.

Immigrazione 9I migranti dormivano tutti insieme, uomini e donne, nel capannone ed erano così ammassati che non c’era neanche lo spazio per muoversi (cercavano solo di mantenere un corridoio al centro per facilitare gli spostamenti). L’hangar non era areato, le condizioni igieniche erano del tutto scadenti, c’erano pidocchi ovunque, molti migranti soffrivano di malattie della pelle. Non potevano lavarsi, il cibo fornito era scarso. La notte il capannone veniva chiuso dall’esterno con un lucchetto e da quel momento veniva negato anche l’accesso ai due bagni che si trovavano subito fuori dal capannone, ma sempre all’interno delle mura. Fuori dal capannone vi erano anche alcune piccole costruzioni: una stanza detta Amalia o anche stanza delle torture, una stanza dove abitava Ismail, altre in cui abitava Kalifa (il responsabile dei campi [23]) e le guardie libiche.

La libertà sia all’interno che all’esterno dell’hangar era inesistente. I profughi erano costretti a rimanere chiusi dentro al capannone giorno e notte, senza nemmeno poter parlare fra di loro. Potevano uscire solo quando lo decideva Ismail.

Nel corso delle deposizioni più testi si erano definiti suoi “prigionieri”

ABDULQUANI ha ricordato che c’erano solo due bagni per circa quattrocento persone. Di notte il capannone veniva chiuso con un lucchetto e al di fuori era sorvegliato da guardiani armati che si davano i cambi. Venivano sempre sorvegliati anche quando uscivano durante il giorno per lavorare.

HOMZE ha confermato che il capannone veniva chiuso di notte e che le guardie passavano in mezzo ai profughi armate di bastoni ingiungendo loro di dormire.

IDRIS ha riferito che il capannone dove erano rinchiusi era una struttura chiusa, priva di letti, dove non si vedeva il sole, piena di pidocchi. Il cibo era poco e veniva distribuito due volte al giorno. Il capannone era circondato da uomini armati con bastoni, pistole e coltelli. Le porte rimanevano sempre chiuse, venivano aperte solo in tre occasioni: quando bisognava pagare, quando veniva comunicato che qualcuno aveva pagato, quando doveva essere picchiato qualcuno o presa qualche ragazza. In tutto il periodo della loro reclusione i profughi erano così debilitati che stentavano a reggersi in piedi.

I bagni erano accessibili solo durante il giorno. Durante la notte poteva quindi succedere che le persone dovessero urinare dentro il capannone.

Le condizioni igieniche erano pessime, il capannone era pieno di pidocchi e la maggior parte delle persone soffriva di infezioni alla pelle.

NIMCAM ha riferito che non era possibile scappare perché le guardie erano tutte armate e nessuno aveva né la forza né la volontà di ribellarsi. Erano già considerati fortunati quelli che stavano bene di salute.

ABDULLAI ha riferito che non appena giunti al campo di Bani Walid, Kalifa, altrimenti detto Ali Bur, aveva spiegato subito di essere lui il responsabile del campo ed aveva presentato Ismail come il suo braccio destro. Quest’ultimo poi aveva minacciato che se non avessero rispettato i suoi ordini e se avessero parlato tra loro, sarebbero stati picchiati.

SHAFICI a sua volta ha confermato che la privazione della libertà era totale, non solo non potevano uscire dal capannone, ma neppure parlare tra loro altrimenti sarebbero stati picchiati. Sia il capannone che il recinto esterno venivano chiusi di notte.

AIDOUROUSSE e YUSUF hanno sottolineato di non poter far nulla senza il consenso di Ismail e che dovevano chiedere il permesso per tutto (IP 20.03 p. 85).

ABDULI ha affermato che appena arrivati al campo Ismail aveva fatto un discorso dicendo: “da qui possono uscire solo due persone. Una persona che ha pagato i soldi e una persona che è morta” (IP p10).

Le parti lese hanno precisato inoltre che era ISMAIL a decidere chi doveva essere portato fuori durante il giorno per lavorare. In genere lavoravano alla costruzione di altri capannoni nel perimetro del campo. Le persone che venivano scelte erano in generale quelle che avevano già pagato la prima parte della somma dovuta e pertanto difficilmente avrebbero tentato la fuga. In ogni caso erano sempre sorvegliati da uomini armati. Solamente ABDULI, approfittando di un momento di distrazione dei sorveglianti, era riuscito a scappare durante un turno di lavoro.

Il campo di Sabrata era diverso.

C’era sempre un grande capannone dove venivano tenuti centinaia di migranti, ma gli stessi potevano spostarsi al suo interno, scegliere con chi condividere il pasto, potevano comprare sigarette e generi alimentari in un negozio all’interno del campo. Anche i controlli erano minori dal momento che i migranti che arrivavano sulla costa avevano già pagato tutta la somma dovuta e non avevano interesse a scappare.

I racconti delle persone offese risultano dunque del tutto omogenei per quanto concerne la totale privazione della libertà personale subita a BANI WALID.

Le parti lese hanno riferito di non essere libere di muoversi all’interno del capannone, di non potere uscire dallo stesso se non su ordine di ISMAIL, di non potere nemmeno parlare tra loro.

Hanno quindi indicato dei dati oggettivi che avallavano l’autorità di ISMAIL ed il loro stato di prigionia, come la costante presenza di sorveglianti armati di fucili AK che presidiavano il campo e le recinzioni che lo racchiudevano.

Questo trattamento, a loro dire, finiva (per lo più) al momento del pagamento della somma dovuta a cui corrispondeva in genere il trasferimento nel campo di Sabrata dove i controlli erano meno severi e le condizioni di vita migliori.

La loro testimonianza risulta quindi logica ed intrinsecamente credibile e pertanto anche con riguardo a questi punti della loro narrazione si deve formulare un giudizio di piena attendibilità.

Solo il racconto di ABIDARAHMAN risulta discostarsi da quello degli altri testi, ma si tratta di una discrasia solo apparente. Infatti, come emerge dalle contestazioni, lo stesso, la prima volta che era stato sentito, aveva riferito di essere stato in Libia in tre campi, il secondo dei quali era quello di Ismail presso la zona di Bani Walid. In incidente probatorio, invece, aveva ricordato solo due campi, dichiarando che Ismail gestiva quello di Sabrata, vicino alla costa, dove era stato portato a seguito della permanenza in un precedente campo. Quando però gli era stato chiesto di descrivere il campo di Ismail, prescindendo da riferimenti a luoghi e denominazioni, il teste aveva fornito una descrizione dei luoghi relativa senza dubbio al campo di Bani Walid, lasciando così intendere di essersi semplicemente confuso nel definirlo. ABIDARAHMAN infatti ricordava la presenza di un grande capannone senza finestre circondato all’esterno da un alto recinto. All’interno del capannone dormivano centinaia di persone ammassate e vi erano solamente due bagni. La porta del capannone veniva chiusa a chiave ed era sorvegliata da due persone armate che non permettevano in alcun modo a chi era all’interno di allontanarsi. Inoltre, ABIDARAHMAN affermava di aver notato/assistito a numerose violenze perpetrate da ISMAIL, a torture, a violenze sessuali, all’uccisione di alcuni migranti, a violenze finalizzate a sollecitare i pagamenti, riferendo quindi ancora una volta circostanze riconducibili  al campo di Bani Walid e non di Sabrata.

Pure IDRIS sembrerebbe prima facie aver situato ISMAIL e le violenze dallo stesso compiute in un campo diverso da quello indicato dagli altri testi. Ma ancora una volta il suo racconto ha denotato solo un’imprecisione terminologica. Infatti anche se il teste ha definito il campo di ISMAIL come “il campo dove si prende la barca”, lo ha poi descritto così come gli altri testi, riportando tra l’altro che lo stesso distava circa un giorno e mezzo di viaggio dal luogo dell’imbarco.

Si può pertanto affermare che anche per quanto concerne la privazione totale della libertà personale e la sorveglianza a cui erano sottoposti tutti i migranti nel campo di Bani Walid, le dichiarazioni delle parti lese sono state precise, ricche di particolari e convincenti in ogni passaggio, nonché tra loro coerenti senza alcuna contraddizione significativa.

Tra l’altro, lo stesso imputato, nel corso del suo esame, ha confermato gli aspetti sopra descritti della vita al campo e non ha contestato le dichiarazioni delle parti lese se non nella misura in cui erano state a  lui attribuite le violenze.

2.3.2  Il ruolo di ISMAIL, di KALIFA e di alcuni aiutanti

Vi è assoluta concordanza nel racconto dei testimoni sul fatto che ISMAIL non avesse agito da solo, ma su delega di Kalifa e con ai suoi ordini vari guardiani libici armati, nonché sul fatto che fosse stato ISMAIL ad esercitare le peggiori violenze nel campo di Bani Walid.

Kalifa è stato da tutti i testi indicato come il responsabile del campo di Bani Walid, che sporadicamente passava dal campo e che aveva indicato ISMAIL come il suo delegato. Anche egli era di nazionalità somala. Veniva chiamato anche Ali Bur, ma il suo vero nome, secondo alcuni, era Ali Omar. Alcune parti lese hanno riferito che era stato Kalifa ad indicare loro la somma richiesta. Altri hanno raccontato che aveva una stanza a parte all’interno del recinto del campo e che a volte ISMAIL sceglieva per lui delle donne, anche se anch’egli, così come l’imputato, aveva una donna fissa (ARAGSAN per il primo, UBAX per il secondo).

Le guardie libiche prendevano ordini da lui e da Ismail.

Kalifa era responsabile anche di altri campi in Libia [24] e per questo, appunto, non era sempre al campo di Bani Walid.
Ismail, invece, è stato indicato come responsabile solo del campo di Bani Walid e con il ruolo di garantire che il prezzo del viaggio venisse pagato.

L’imputato era sempre presente al campo e per quanto riguarda le violenze dallo stesso esercitate nessuno dei testi ha citato l’interferenza di Kalifa, che hanno riferito appunto di aver visto solo poche volte (peraltro le parti lese hanno sottolineato che loro erano sempre relegati all’interno del capannone e dunque non sapevano con certezza chi ci fosse fuori).
Anche sulla presenza nel campo di sorveglianti armati vi è conformità tra i racconti dei testimoni.

Tutti li hanno citati nel corso del loro racconto, affermando che si trattava per lo più di uomini libici. Alcuni però erano provenienti dal Ciad. Erano costantemente armati con bastoni, sbarre di ferro o di gomma, ed anche con armi da fuoco quali pistole e fucili AK.

Gli stessi accompagnavano ISMAIL ed eseguivano i suoi ordini, sorvegliavano l’uscita del capannone, facevano la guardia fuori dallo stesso di giorno e di notte, controllavano i prigionieri che venivano portati a lavorare fuori dall’Hangar.

Tutti i testi hanno riferito che anche Ismail era spesso armato (quando entrava nel capannone per lo più aveva dei bastoni o sbarre, a volte però anche delle armi da fuoco). Solo HOMZE e LULU non lo hanno ricordato, ma il primo era stato nel campo di Ismail solo per un tempo molto limitato, circa 40 giorni, e la seconda ha riferito di essere stata solo a Sabrata.

Nessuno ha riportato violenze perpetrate direttamente da KALIFA, né da parte delle guardie libiche se non su ordine di ISMAIL.

Alcuni testi hanno fatto riferimento più specificamente a degli aiutanti di ISMAIL, attribuendo in ogni caso agli stessi un ruolo e comportamenti diversi da quelli dell’imputato.

ABDULLAI ha riferito che c’era un certo HAJII (Mahdi Socdal Hajii) che era un uomo di ISMAIL ed a volte li picchiava su suo ordine.

SAFIA ha raccontato che HAJII (che descriveva come un uomo anziano, claudicante, calvo e con un dente rotto) aveva cooperato con ISMAIL per la riscossione del prezzo del viaggio. Inoltre l’imputato si faceva spesso accompagnare da dei guardiani, quasi sempre da uno di nome ABIDARAHM BORANE. Era peraltro solo  ISMAIL che picchiava i prigionieri.

DAHIR ha riportato la presenza nel campo di un certo SHINO che era un  guardiano che faceva piccole commissioni per l’imputato, anzi era “gli occhi di Ismail”, che gli riferiva se qualcuno aveva fatto qualcosa di sbagliato. Aggiungeva che questo Shino non si era imbarcato con ISMAIL.

LULU ha riferito che nel campo di Sabrata c’era un certo SHINO che aiutava ISMAIL a Sabrata a distribuire le medicine [25].

             Le parti lese hanno riferito in modo del tutto analogo la nazionalità,  il ruolo ed i comportamenti dei soggetti che li controllavano, addebitando al solo ISMAIL un atteggiamento estremamente violento  nella gestione dei migranti.

I testi nell’illustrare le loro esperienze e di conseguenza le azioni di ISMAIL non hanno citato che limitati interventi di Kalifa. Molti di loro, a conclusione delle loro affermazioni, nel giustificare come mai avessero parlato soprattutto di ISMAIL, hanno spiegato che la loro condizione di reclusione non permetteva loro di vedere esattamente quello che succedeva fuori dal capannone e dunque di dire con certezza come operassero all’esterno dell’hangar. Ma anche se in forza del loro racconto non è stato possibile ricostruire appieno i rapporti tra quest’ultimo e l’imputato (per esempio con riguardo alla genesi della loro collaborazione), in ogni caso è emerso con certezza che il secondo, nonostante agisse formalmente come rappresentante del primo, aveva posto in essere in via autonoma le sue azioni violente almeno con riferimento alle parti lese ed agli episodi dalle stesse descritti (cfr i sottoparagrafi successivi).

Inoltre, le precisazioni dei testi su questi aspetti mostrano come le loro testimonianze non si connotino per un sentimento di rancore generalizzato rispetto a tutti coloro che li avevano tenuti reclusi nel campo di Bani Walid. Al contrario i testi, dopo aver affermato di non aver conosciuto ISMAIL se non in Libia (ed aver così escluso di aver motivi di rancore pregressi) hanno  ricondotto  solo a lui il ruolo più attivo ed anche più violento nei loro confronti.

 2.3.3 La richiesta del pagamento del prezzo del viaggio da parte di ISMAIL

Le persone offese hanno raccontato che appena giunti a Bani Walid, ISMAIL, dopo aver loro comunicato le regole del campo, aveva immediatamente indicato la somma che doveva essere corrisposta dalle loro famiglie (tramite il già citato sistema Hawala). Questa era la condizione per poter lasciare il campo. ISMAIL, infatti, aveva detto loro che se entro un certo tempo i loro familiari non avessero pagato, li avrebbe picchiati, torturati ed alla fine uccisi, perché lui nel campo poteva fare ciò che voleva.

Immigrazione 12AIDOUROUSSE ha riferito che un giorno Ismail e Ali Bur erano arrivati al campo, li avevano fatti uscire dal capannone e li avevano minacciati dicendo frasi come: “se non pagherete, come abbiamo ucciso altre persone uccideremo voi”.

Poi, tutti i nuovi arrivati erano stati messi in contatto telefonico con i loro  familiari ed erano stati percossi fino a che questi ultimi avevano risposto “sì li mandiamo”.

ABDULQANI ha raccontato che Ismail gli aveva  detto  che  se  i  suoi  familiari non avessero pagato:  “morirai e morirai anche in un modo orribile” .

IDO ha ricordato che una volta ISMAIL aveva portato fuori due ragazzi che non avevano mandato velocemente i soldi e, quando era rientrato, aveva detto: “Vedete come ho ucciso queste due persone? Chi non manderà i soldi farà la stessa fine”.

ABDIRAMAN ha rammentato che Ismail minacciava di picchiare e uccidere chi non avesse pagato e che nessuno poteva fare niente se non dietro suo ordine. ISMAIL ripeteva spesso: “Posso uccidere quando voglio e come voglio. Posso fare quello che voglio”.

NIMCAM ha raccontato che durante la telefonata ai familiari era stato legato mani e piedi e che una volta ottenuto il collegamento con il fratello, Ismail aveva cominciato a picchiarlo. Qualche volta era persino capitato che Ismail picchiasse le persone fino a farle sanguinare e poi scattasse delle foto con il cellulare che inoltrava alle loro famiglie a scopo intimidatorio.

IDRIS ha commentato che ogni mattina ISMAIL entrava nel capannone e leggeva da un quaderno i nomi di chi aveva pagato, di chi doveva ancora pagare e chi doveva finire il pagamento iniziato. Alcuni venivano portati fuori per lavorare,  altri venivano picchiati. I restanti rimanevano seduti a pregare.
Tutte le persone senza distinzione di età e di sesso venivano sottoposte a tali sevizie.

Anche LULU, che pur ha riferito in dibattimento di non essere stata picchiata nei campi di Ismail, ha affermato che lo stesso le aveva detto che se non avesse pagato 2000 dollari sarebbe stata picchiata e che quando lei aveva implorato pietà affermando di essere una “povera mamma”, sottolineando la sua età, l’imputato le aveva risposto che non poteva far eccezioni. In questa occasione le aveva detto anche che pure lui era solo un povero migrante a cui Kalifa aveva lasciato la gestione del campo “per un anno, con l’intesa che dopo averlo gestito per un anno avrebbe fatto il viaggio senza pagare altri soldi” (si analizzerà più avanti, nel paragrafo 4 e 5, se questo commento di ISMAIL possa ritenersi credibile e come rilevi in punto di responsabilità dell’imputato).
Peraltro non sempre le violenze di ISMAIL erano terminate dopo il pagamento del prezzo del viaggio, ma erano finite solo quando le parti lese si erano allontanate da ISMAIL (cfr IDRIS, IDO ed AYAN).

Alla luce delle dichiarazioni delle persone offese è emerso quindi che era stato lo stesso imputato a riferire e dimostrare loro in ogni modo che il pagamento del denaro era la condizione non solo del loro trasferimento sulla costa per imbarcarsi verso l’Europa, ma anche perché cessassero le violenze e potessero aver salva la vita.

La somma richiesta rappresentava quindi il prezzo da pagare per la loro liberazione da uno stato che hanno descritto come di vera e propria prigionia ed era il presupposto  perché cessassero le violenze subite o anche solo le minacce, che ponevano tutti i migranti in balia di ISMAIL.

2.3.4  Le violenze perpetrate da ISMAIL e l’obbligo di non parlare

C’è assoluta omogeneità nelle deposizioni di tutti i testimoni per quanto concerne il modus operandi dell’imputato: violenze e maltrattamenti fisici a chiunque, ovunque e a qualunque ora del giorno, senza necessariamente un motivo, a volte anche solo perché avevano contravvenuto alla regola del silenzio.

Non solo durante le telefonate ai familiari, non solo per punire il migrante per un qualcosa, ma senza motivo, anche all’interno del capannone, ISMAIL percuoteva i suoi prigionieri con bastoni, tubi di plastica, spranghe che aveva costantemente con sé e che agitava a destra e sinistra colpendo chiunque si trovasse nei paraggi.

C’era chi prendeva solamente calci e pugni e chi invece veniva colpito con spranghe di ferro (SHAFICI e NUUR hanno entrambi riferito di due ragazzi a cui Ismail aveva spaccato le braccia con una spranga di ferro nel capannone). Altre volte, poi, le punizioni erano prolungate.

OMAR ha raccontato che ISMAIL, assistito dai guardiani libici, lo picchiava tutti i giorni, a volte anche per venti minuti consecutivi. Lo faceva sdraiare e gli camminava sopra.

Non sempre gli legava le mani, ma se si muoveva lo picchiava ancora più forte.

In due occasioni gli era uscito sangue dal naso e dalla bocca.

A volte lo faceva spostare a carponi e nel frattempo lo bastonava.

IDO ha riferito di essere stata picchiata fin dal giorno dopo la prima telefonata poiché la madre non poteva pagare subito la somma richiesta. Era di spalle ed era stata colpita all’improvviso da dietro con un bastone. Ismail era solito picchiare uomini e donne senza motivo: passava in mezzo alle persone e le bastonava.
ABDIRAMAN ha riferito di essere stato picchiato più volte perché tardava ad arrivare il suo pagamento. Una volta era stato legato e picchiato da Ismail,  che gli metteva la testa in un secchio d’acqua. Un’altra volta era stato colpito alla testa con un sasso ed era stato ferito sul costato con un filo di elettricità. Ricordava che una volta Ismail era entrato nel capannone e per il solo fatto che lui ed altri stavano parlando, gli aveva scagliato contro un coltello lacerandogli la mano di cui mostrava la cicatrice.
Ha definito Ismail “una persona senza pietà”, che picchiava le persone, violentava le donne e che minacciava di uccidere chi non avesse pagato.

NUUR ha affermato che le persone venivano divise in due gruppi: chi aveva pagato e chi no. I primi venivano presi a calci e sberle, i secondi venivano  picchiati con un bastone di ferro.

Lui, peraltro, aveva ricevuto solo una sberla ed un calcio al basso ventre [26].

IDRIS ha riferito che ISMAIL usava anche l’acqua per tormentare i prigionieri che venivano appesi a testa in giù con mani e piedi legati. A chi urlava, veniva messa la sabbia in bocca.

YUSUF era stato ripetutamente picchiato con un bastone di plastica. Non era mai stato portato nella sala delle torture, ma ha confermato di aver saputo della sua esistenza.

Quasi tutti i testi hanno affermato che ISMAIL aveva imposto di non parlare tra loro nel capannone.

DAHIR ha affermato che non potevano parlare tra loro di quanto accadeva. ABDULQUANI e SHAFICI hanno riferito che spesso ISMAIL picchiava i prigionieri perché parlavano all’interno del capannone. Appena Ismail sentiva qualcuno che parlava, entrava nell’hangar e passava da una parte all’altra picchiando le persone con un bastone o un tubo di plastica o di ferro. Picchiare era diventata una prassi, dalla mattina fino a mezzogiorno.

ABDULQANI affermava inoltre che dovevano stare attenti a non parlare perché nel capannone circolavano spie di Ismail.

E le azioni violente di ISMAIL, andavano ben al di là di quello che sarebbe stato necessario per indurre un pagamento veloce, per impedire ai prigionieri di fuggire, o per mantenere l’ordine nel capannone. Stando alle parole dei testi, Ismail torturava la gente, per il piacere di farlo.

 ABDULQANI ha riferito che ISMAIL arrivava addirittura a non dare più niente da mangiare a chi non aveva pagato in tempo.

IDO lo ha descritto come “Un vero e proprio torturatore. Tutto il giorno violentava le donne e picchiava le persone. E’ un uomo veramente cattivo e che gode a fare le torture. Era molto fiero di sé, ci diceva sempre: ´io non sono somalo, io non sono musulmano, io sono il vostro padroneª” (IP 20.01 p. 167).

SHAFICI lo ha definito come un vero e proprio sadico (IP 21.03 p. 84 trsc), che li torturava e picchiava anche se lavoravano bene.

OMAR ha riportato che ISMAIL, dopo averlo massacrato di botte fino a fargli uscire il sangue dalla bocca, gli aveva chiesto come mai non stesse piangendo.

Secondo ABDULQANI, ISMAIL si divertiva a trovare sempre nuove torture e mentre li picchiava rideva, fumava e parlava al telefono (IP 30.01 p. 20 trsc).

ABDIRAMAN ha sostenuto che Ismail era senza pietà, che diceva sempre di poter fare tutto ciò che voleva, poteva uccidere come e quando voleva.

IDRIS ha raccontato che ISMAIL imponeva loro di abbassare la testa al suo passaggio dicendo di essere il loro Dio, che nessuno poteva guardarlo, che se solo qualcuno si fosse azzardato a farlo, lo avrebbe selvaggiamente picchiato. Ismail ripeteva: “anche se mi vedrete in Europa io sarò sempre sopra di voi, io sono il vostro Dio e non potete dire niente”.

2.3.5 le punizioni e le torture

Le violenze peggiori avvenivano fuori dal capannone, in uno spazio antistante lo stesso, oppure in una apposita stanza chiamata Amalia, o anche stanza delle torture di cui hanno parlato più testi.

Le persone quando venivano portate fuori dal capannone per essere punite venivano fatte inginocchiare, venivano legate e picchiate, quando con bastoni, quando con tubi di plastica.

HOMZE, oltre a riferire di essere stato picchiato più volte da ISMAIL con un tubo di plastica, ha anche raccontato di aver ricevuto una foto da parte di un altro ragazzo, anch’egli passato dal campo gestito dall’imputato, che ne mostrava la schiena deturpata dalle violenze. Ha raccontato altresì di aver assistito ad un episodio in cui Ismail aveva costretto un uomo anziano (OMAR) a camminare carponi su dei sassi e poi l’aveva picchiato sulla schiena con un tubo di plastica.
Anche AIDOUROUSSE ha raccontato di essere stato più volte portato fuori e “massacrato” da Ismail. In particolare ricordava una volta in cui era stato completamente denudato e Ismail lo aveva picchiato per 4 ore, gli aveva bruciato i testicoli con l’elettricità e una spalla con della plastica sciolta sulla pelle. Era stato percosso così tanto da fargli fuoriuscire il sangue.
IDRIS ha riportato che le persone venivano chiamate per nome e per cognome e fatte uscire per essere picchiate. Un giorno Ismail lo aveva picchiato, con una cosa che non aveva visto, talmente forte che a un certo punto aveva perso i sensi. Al risveglio si era trovato pieno di sangue ed a quel punto aveva visto che Ismail impugnava un bastone. A tutt’oggi provava dolore al fianco destro.

Immigrazione 8Era inoltre capitato più volte che fosse stato legato mani e piedi e fosse stato lasciato in quella condizione per un po’ di tempo. Dopo ISMAIL lo aveva picchiato e solo quando si era stancato aveva ordinato ad altri uomini di portarlo via.

Era stato picchiato più volte. A volte Ismail gli aveva spento delle sigarette sulle gambe.

La violenza era continua ed era proseguita anche una volta arrivati i soldi dei famigliari.
Quello che accadeva all’interno della stanza delle torture era ancora più orribile.

Non tutti i testimoni erano stati portati in questa stanza, ma anche chi non c’era stato ha raccontato dello stato pietoso in cui le persone ritornavano dopo essere state là dentro. Ha ricordato altresì le grida che aveva sentito, ha rammentato le ustioni e lo stato di incoscienza di alcuni dei prigionieri al momento in cui erano rientrati nel capannone dopo essere stati in tale stanza.

Le dichiarazioni di chi ha ammesso di aver potuto solo dedurre quello che accadeva all’interno di quella stanza, di chi aveva solo visto persone portate fuori dal capannone e poi rientrate nelle peggiori condizioni, di chi aveva potuto ascoltare il loro racconto, trovano conferma nei racconti dei testi che in quella stanza c’erano stati.

NUUR ha riferito di aver saputo dell’esistenza di questa stanza. Aveva inoltre sentito le urla dei prigionieri, che venivano portati fuori dal capannone e che  quando vi facevano ritorno erano pieni di bruciature su tutto il corpo. Alcune di queste persone gli avevano raccontato di essere state spogliate, bagnate con l’acqua e poi torturate con dei cavi elettrici.

SAFIA ha detto di non aver saputo della stanza delle torture, ma di aver appreso che gli uomini venivano appesi per le mani, con i piedi che non toccavano terra, a dei tubi che formavano il tetto dell’area esterna del capannone e venivano colpiti nei testicoli. Altre volte venivano incaprettati e colpiti ripetutamente in ogni parte del corpo con un tubo di gomma.

IDO ha riferito di non essere mai stata portata dentro alla stanza Amalia, ma di aver visto molte persone uscire da lì, piangendo e con il corpo gonfio e sanguinante. Aveva appreso che Ismail utilizzava per le sue sevizie un bastone di ferro, un filo dell’elettricità o dei sacchetti di plastica che bruciava con l’accendino per ustionare le vittime.

NIMCAM ha dichiarato di essere stato portato nella stanza delle torture per quattro volte e di essere stato attaccato all’elettricità dopo essere stato completamente bagnato.

AIDOUROUSSE era stato più volte portato nella stanza delle torture per essere picchiato con delle corde spesse. Era stato legato senza vestiti e picchiato per quattro ore consecutive con bastoni e torturato con fili elettrici. Ismail gli aveva bruciato i testicoli e la spalla con una busta di plastica sciolta.

SHAFICI ha riferito di un episodio in cui era stato picchiato selvaggiamente da Ismail. L’imputato gli aveva legato le mani e i piedi, lo aveva picchiato e poi attaccato all’elettricità. A causa dei colpi e delle torture aveva vomitato sangue (IP 30.01.16 p.81). Non era stata peraltro l’unica volta. Altre volte lo aveva portato nella stanza delle torture, lo aveva legato e poi picchiato con tutto quello che gli passava per le mani, una volta era stato anche frustato con una cintura in pelle.

ABDULQANI era stato portato nella stanza delle torture molte volte, ed ha riferito che in alcune occasioni Ismail lo aveva lasciato legato per terra anche per delle ore, posizionandolo appositamente nel punto della stanza in cui batteva sempre il sole e osservandolo mentre si disidratava e si urinava addosso. Poiché le ore che il teste aveva passato là dentro incaprettato erano state moltissime, in più di un’occasione aveva avuto modo di assistere anche alle violenze che nel frattempo venivano fatte ad altri. Aveva visto così che ISMAIL bruciava delle persone con “il sistema della plastica sciolta”. Ismail scaldava delle buste di plastica con un accendino e poi lasciava colare la plastica incandescente sulla pelle del malcapitato.

Di questi fatti non si doveva parlare.

Quanto accadeva all’esterno del capannone non era risaputo se non raramente dai migranti che erano rimasti reclusi al suo interno. Infatti chi ha raccontato di episodi di vere e proprie torture l’ha fatto o perché le ha subite personalmente, o perché le ha viste mentre era fuori dal capannone perché lo stavano picchiando a sua volta oppure perché la porta dell’hangar era rimasta aperta ed aveva scorto quell’orribile scenario dallo spiraglio (come ad esempio ha riferito IDO quando ha raccontato di un ragazzo a cui era stata attaccata l’elettricità ai testicoli).

2.3.5  L’assenza di cure successive

Altro dato assolutamente pacifico è che molte di queste persone dopo aver subito tali violenze stavano male per giorni (come era capitato ad AIDOUROUSSE, a SHAFICI, ad IDO ed AYAN etc).

A Bani Walid nessuno prestava loro soccorso o aiuto, né Ismail, né i libici, né gli altri migranti, che erano terrorizzati al punto da non essere in grado né di ribellarsi, né di far qualcosa che fuoriuscisse dalle regole.

Nessuno era comunque in grado ed aveva gli strumenti per prestare soccorso agli altri.

Inoltre, lo stato di soggezione e di paura in cui versavano i prigionieri era tale che ciascuno pensava solo a non violare le regole ed a preoccuparsi della propria sopravvivenza.

Dalle dichiarazioni delle parti lese emerge che in una sola occasione era capitato che era stato offerto soccorso medico ad uno di loro. AIDOUROUSSE infatti ha riferito di essere stato accompagnato all’ospedale dopo aver preso la scossa mentre aiutava i sorveglianti a svolgere dei lavori elettrici.

2.3.6  le cicatrici sui corpi delle parti lese

Il racconto dei testi sulle violenze subite ed assistite, non solo risulta complessivamente coerente, ma trova conferma nelle cicatrici che ancora le parti lese presentano sul corpo, così come verificato dal consulente medico legale del PM,  la Dott.ssa Cattaneo.

Il consulente, infatti, nella sua relazione e poi in dibattimento ha affermato che i segni lesivi riscontrati sul corpo ABDULQANI, IDRIS, SHAFICI, ABDIRAHMAN, HOMZE, NUUR[27] erano apparsi “altamente coerenti”, ossia pienamente compatibili, rispetto al racconto fatto dai testi sulle violenze subite ed al tempo in cui le avevano sopportate.

Il consulente ha illustrato preliminarmente che per pervenire a detto giudizio aveva proceduto applicando la metodologia prevista dal protocollo Istanbul 2004[28]. Ha riferito poi che le parti lese avevano spontaneamente indicato quali segni lesivi fossero precedenti al loro accesso al campo di ISMAIL ed ha altresì spiegato che la possibilità di individuare un’unica causa della lesione dipende dal modo in cui la stessa è stata procurata (per esempio sul corpo dei giovani che avevano riferito di essere stati frustati con dei fili che avevano dei punti metallici, aveva trovato delle lesioni del tutto particolari che risultavano coerenti con il racconto e difficilmente potevano aver avuto altra genesi, invece per le altre cicatrici, di per sé meno specifiche, aveva potuto esprimere solo un giudizio di alta coerenza). Ha affermato infine che non tutte le violenze descritte dalle parti lese potevano aver lasciato un segno ( in particolare le scosse elettriche non lasciano segni soprattutto se indotte su un corpo bagnato).

Il consulente ha specificato di non aver verificato se le parti lese avessero riportato lesioni interne perché nessuna di loro aveva descritto una sintomatologia coerente con detta ipotesi. A parte gli esiti cicatriziali, non le erano stati riferiti postumi permanenti, se non dolenzie. Non aveva inoltre indagato, perché non di sua competenza, se le parti lese avessero riportato un pregiudizio dal punto di vista psichico, aveva solo raccolto le loro dichiarazioni a proposito dei disturbi di cui ancora soffrivano come conseguenza dell’esperienza presso il campo di ISMAIL, quali insonnia, inappetenza, cefalee, tutti sintomi che nella letteratura scientifica sono indicati come tipici di  esperienze di prigionia e maltrattamenti.

2.3.7   Alcune osservazioni

Anche con riferimento a questa parte del racconto valgono le considerazioni sopra esposte sull’attendibilità dei testi. Occorre però aggiungere alcune osservazioni.

Le parti lese hanno parlato innanzitutto di fatti molto particolari (percosse con tubi di gomma o spranghe di ferro, frustate con corde o cavi con pezzi aguzzi, torture con l’acqua e l’elettricità, sabbia in bocca, pratiche umilianti), hanno descritto nel contempo con vividi particolari le condotte di ISMAIL, mostrando così di attingere alle proprie esperienze e non ad un generico racconto preconfezionato.

Il racconto di ciascuno dei testi è risultato ancora una volta originale e ha trovato riscontro nelle verifiche del consulente medico legale che ha attestato l’alta compatibilità degli esiti cicatriziali riscontrati con la descrizione da parte delle persone offese delle sevizie subite. Il consulente ha altresì riportato l’attenzione e la misura con cui le parti lese hanno riferito i loro vissuti (indicando spontaneamente le lesioni riportate prima dell’accesso nei campi di ISMAIL, riportando in modo congruo anche i malesseri psicologici loro derivati da questa drammatica esperienza, etc).

Le dichiarazioni delle parti lese hanno trovato per lo più solo un generico riscontro in quelle degli altri testi che hanno riferito di esperienze analoghe. Ma questo risulta logico considerando non solo che le violenze più gravi avvenivano fuori del capannone e che all’interno di questo erano comunque ammassate circa 500 persone, che quindi non potevano avvedersi di tutto quanto avveniva nelle diverse parti dell’hangar, ma anche che la prima regola imposta da ISMAIL ai prigionieri era stata quella di non parlare tra di loro.

E quest’ultimo dato non è in contraddizione con il fatto che i testi abbiano detto che le punizioni di ISMAIL erano finalizzate a sottomettere  tutto il gruppo. Infatti le punizioni erano così frequenti e diffuse che quanto ciascuno era in grado di vedere dalla sua postazione nel capannone era sufficiente ad intimidirlo e le esperienze di ognuno potevano bastare a fargli intuire quanto accadeva agli altri. Inoltre anche la regola del silenzio era mirata a che i migranti si sentissero totalmente in balia dei loro aguzzini, le cui azioni non potevano in alcun modo sindacare e contrastare.

 Nonostante la gravità delle violenze subite, nonostante la sovrabbondanza di migranti rispetto alle guardie, nessuna delle parti lese ha potuto riferire di episodi di ribellione. Palese è stato il disagio delle parti lese nell’ammettere di essersi adeguati alle regole senza opporsi, ma la loro giustificazione è stata logica e comprensibile: la paura, lo stato di inedia e di grave malessere in cui si trovavano per i maltrattamenti ricevuti e le condizioni di reclusione in cui erano tenuti.

 E nemmeno ha pregio un altro argomento difensivo sostenuto da Ismail laddove ha affermato che non sarebbe credibile quanto gli è stato ascritto dalle parti lese, perché le guardie libiche gli avrebbero impedito le azioni imputategli, avendo interesse a tener in vita i migranti e ad evitare possibili ribellioni. Si è visto però non solo che nessuno si era ribellato, aveva protestato, ma anche come fossero stati brutali i metodi adottati da tutti i membri dell’organizzazione durante i trasferimenti e come le guardie libiche fossero state viste agire solo come subordinate a ISMAIL.

E’ emerso inoltre che anche in altri campi e persino nelle prigioni libiche il trattamento che subivano i migranti era in buona parte paragonabile a quello che è stato ora attribuito ad ISMAIL (cfr SAFIA [29], OMAR [30] e LULU [31])

Né il racconto delle parti lese su queste violenze può essere smentito considerando che per Ismail come per gli altri uomini dell’organizzazione ogni migrante significava denaro. Infatti c’erano tantissime persone disposte a partire a tutti i costi. Si trattava di “merce” facilmente sostituibile, come è dimostrato anche dal fatto che più testi hanno affermato che se nel percorso nel deserto qualcuno cadeva dal pick-up nessuno si fermava a raccoglierlo. E non è neanche provato che della loro morte fossero informati tempestivamente i familiari che quindi potevano persistere nella convinzione di dover pagare l’intera somma.

 Si osserva infine che le condizioni igieniche pessime in cui venivano tenuti e l’assenza di cure asserita da tutte le parti lese non sono certo smentite dall’unico episodio in cui un prigioniero era stato portato in ospedale. L’esperienza riportata da AIDOUROUSSE non vale a smentire il racconto conforme su questi aspetti di tutti gli altri testi, perché le sue dichiarazioni sul punto (oltre a confermare la obiettività e non persecutorietà della sua testimonianza), non mettono in dubbio la crudeltà con cui i migranti venivano trattati dall’imputato. Per AIDOROUROUSSE si era trattato infatti di un incidente e non di una punizione inflittagli da ISMAIL e probabilmente la sua competenza per i lavori elettrici era considerata utile nel campo.

2.4 Le VIOLENZE SESSUALI

I testi hanno riferito che ISMAIL aveva compiuto ripetutamente atti di violenza sessuale ai  danni di numerose ragazze somale all’interno del campo.

Quasi tutti i testimoni hanno riferito che Ismail ogni sera portava fuori dal capannone una o più ragazze di sua scelta e la teneva con sé anche per giorni. Al suo ritorno capitava che la ragazza raccontasse di essere stata violentata, o che si mettesse in un angolo a piangere o che mostrasse vergogna o che avesse i vestiti strappati.

Solo per citare alcune testimonianze si osserva che:

ABDULI ha affermato che le ragazze venivano portate fuori la notte e venivano violentate. Erano le ragazze a raccontarlo. Personalmente aveva raccolto il racconto delle violenze subite ad opera di ISMAIL solo da parte di tre ragazze chiamate Halima, Fardosa e Muna (p. 19 IP).

SHAFICI ha riferito che ogni sera Ismail sceglieva una ragazza diversa, la portava fuori dal capannone nelle sua casa e la violentava. Lo poteva affermare con certezza in quanto ricordava bene che dal capannone si sentivano le urla disperate delle donne.

ABDULQANI ha raccontato che Ismail in ogni momento della giornata entrava nel capannone e portava via le ragazze che voleva; diceva “alzati” e loro lo seguivano. Poi, mentre erano via, si sentivano le loro urla ed infine quando tornavano nel capannone, piangevano.

HOMZE ha sostenuto che ISMAIL veniva a prendere delle ragazze, non tutte le sere e non sempre le stesse (PM). Alcune non tornavano la notte ma il giorno dopo, e una volta rientrate erano distrutte.

YUSUF ha riferito che spesso vedeva delle ragazze piangere e dire che erano state prese da ISMAIL. Lui non aveva visto ISMAIL prenderle, ma gli era stato confermato da altri.

IDRIS ha confermato quanto detto dagli altri testi, anche con riguardo alle urla delle ragazze e ha aggiunto che le ragazze avevano sempre paura e che lui temeva di far loro domande (“perché se parlavamo venivamo picchiati”) e che aveva saputo cosa era accaduto ad IDO ed AYAN solo dopo che si erano incontrati a Milano.

OMAR (come si è già esposto al paragrafo 2.1) ha ricordato di violenze sessuali fatte ai danni di SUAD.

DAHIR ha affermato di aver assistito ai comportamenti di ISMAIL sopra descritti e di aver sentito una volta mentre ancora era al campo il racconto di una ragazza, che si chiamava Muna, circa le violenze sessuali da lei subite da parte dell’imputato. Lo aveva sentito raccontare anche da altre ragazze durante la traversata dalla Libia alle coste italiane.

SAFIA ha confermato quanto detto dagli altri testi, sostenendo di non essere stata violentata nei campi di ISMAIL, ma di aver assistito alla scelta di altre ragazze da parte dell’imputato. Ha riferito inoltre che le stesse in genere tornavano nel capannone meste e “mostrando vergogna”. Alcune delle ragazze  all’indomani riferivano di essere state violentate da Ali Bur, altre da ISMAIL. Nessuna ragazza poteva rifiutarsi di andare se veniva scelta. Alcune ragazze erano “le donne fisse” di ALI BUR (in particolare ARAGSAN) e di ISMAIL (in particolare UBAX).

In modo analogo si esprimevano anche NIMCAM, NUUR, AIDOUROUSSE, DAHIR, ABDULLAI, ABDIRHAMAN (che hanno affermato anche che Ido e Ayan erano state violentate più volte).

Anche se i testi non hanno saputo essere più specifici nell’individuare le vittime degli atti di violenza sessuale perpetrati da ISMAIL, questo si spiega agevolmente con il fatto che non sempre si conoscevano fra prigionieri e non sempre seguivano i comportamenti dell’imputato. C’erano delle volte in cui dormivano, oppure delle volte in cui una ragazza veniva presa da Ismail dalla parte opposta del capannone e dunque non avevano avuto modo di vedere, altre ancora in cui le ragazze non avevano opposto resistenza cosicché le condotte dell’imputato potevano passare inosservate.
A ricostruire in modo diretto il comportamento dell’imputato soccorrono poi le testimonianze di IDO e AYAN che hanno riferito di essere state più volte violentate da ISMAIL.

IDO riferiva che:

un giorno, dopo poco che era arrivata al campo di Bani Walid, Ismail le aveva strappato i vestiti davanti a tutti e poi l’aveva trascinata nuda nella sua stanza, le aveva legato le mani dietro la schiena, le aveva aperto le gambe e l’aveva violentata. Essendo infibulata, Ismail le aveva aperto l’infibulazione con uno strumento metallico per poterla penetrare e la ragazza per il dolore era svenuta. Quando si era risvegliata era in un lago di sangue e aveva provato un dolore enorme.
Migrante somalaLa mattina seguente Ismail le aveva dato un calcio nel sedere e le aveva detto “adesso ho finito i miei bisogni, te ne puoi andare. Vai via”.
Al momento delle violenze aveva pianto ed urlato, gli aveva detto che lui abusava di lei senza motivo, solo perché i soldi non arrivavano.
A causa di queste violenze aveva avuto problemi successivi di incontinenza e molti dolori.
Questo si ripeteva ogni volta che Ismail voleva, entrava nel capannone, anche mentre lei dormiva e le diceva di alzarsi e di camminare di fronte a lui e la portava nella stanza, le legava le mani dietro la schiena e la violentava, una volta finito la rimandava al campo. Non accadeva ogni singolo giorno ma accadeva spesso, se non era quella sera era quella dopo.
Non aveva la forza di opporsi o anche solo di chiedere spiegazioni, lo stato di soggezione era totale, alcune volte le aveva persino puntato un fucile alla testa.
Una volta che la madre aveva completato il pagamento le violenze, sessuali e non, non erano cessate.
Anche altre donne avevano subito quel tipo di violenza. Lo sapeva sia perché ne aveva sentito parlare, sia perché lo aveva visto lei stessa.

Aveva visto AYAN, che era arrivata nel campo prima di lei, che veniva picchiata da Ismail dentro al capannone. Poi anche lei era stata portata nella casa di Ismail e aveva dovuto starci anche più notti.

ISMAIL le diceva di rientrare nell’hangar sorridente perché nessuno doveva accorgersi che stava male, e tanto meno doveva parlarne. Al campo non parlava di quanto subito nemmeno quando rimaneva sola. Con AYAN si erano raccontate tutto solo quando erano arrivate in Italia (IP 21.01.17 p. 30).

Anche AYAN riferiva di aver subito tali violenze:

la prima volta Ismail era entrato nell’hangar dicendo che i suoi soldi tardavano ad arrivare e così l’aveva minacciata, intimandole di seguirlo.
Aveva opposto resistenza dicendo di non voler uscire, ma gli uomini che erano con ISMAIL le avevano puntato il fucile alla testa e l’avevano trascinata fuori. L’avevano portata nella stanza di Ismail e lì lui aveva continuato a minacciarla, dicendole che lei doveva fare esattamente quello che diceva lui.

Nel tentativo di ribellarsi, gli aveva tirato uno schiaffo e lo aveva graffiato in faccia. A quel punto ISMAIL aveva chiamato i suoi guardiani ordinando loro di legarla con le mani dietro la schiena. Quindi l’imputato aveva preso un coltello, le aveva strappato il vestito e l’aveva violentata.
Riferiva di essere infibulata, ma la sua infibulazione era di una specie più leggera rispetto a quella di IDO, per cui Ismail era riuscito, con un po’ di sforzo, a romperla e a penetrarla. I rapporti erano solo vaginali.
Era stata rinchiusa anche per tre o quattro giorni nella stanza di ISMAIL senza mai poter uscire, dovendo sottostare alle richieste sessuali di Ismail ogni volta che lui lo decideva.
Dopo che i suoi familiari avevano mandato i soldi, le violenze non erano cessate, la sera prima che lei partisse per la costa Ismail le aveva detto che se non avesse fatto tutto quello che diceva lui non l’avrebbe fatta partire.
Ismail era solito portare fuori diverse ragazze.

Anche IDO era stata sottoposta a quelle violenze, ma fin quando erano rimaste al campo non si erano confrontate su quanto subito, perché Ismail vietava loro di parlare in generale e in special modo di quel che accadeva quando le portava via. Nonostante fosse amica di IDO ed avessero fatto il viaggio insieme, di quelle violenze ne avevano parlato solo una volta arrivate in Italia (p.54).

I racconti di AYAN e IDO, due ragazze minorenni al momento delle violenze, che hanno raccontato questo punto della loro esperienza con una partecipazione emotiva estremamente sofferta,  risultano credibili  alla luce di tutti i parametri ermeneutici indicati dalla giurisprudenza e costituiscono pertanto già di per sé prova sufficiente delle loro accuse.

In più i loro racconti  hanno trovato conferma nelle dichiarazioni l’una dell’altra ed in quelle degli altri testi che hanno affermato concordemente di aver visto che le ragazze venivano portate via da ISMAIL e ritornavano nel capannone sconvolte [32].

Nessuna discrasia sostanziale si ravvisa infatti nel racconto delle due ragazze. AYAN, in effetti, quando le era stato chiesto di raccontare se anche la sua amica IDO aveva subito le stesse violenze, non aveva spontaneamente riferito dell’episodio in cui quest’ultima era stata denudata davanti a tutti all’interno del capannone. Ma nessuna domanda le era stata fatta a tal proposito (nel corso dell’esame, d’altra parte, la ragazza, aveva continuato ad interrompersi non riuscendo a trattenere il pianto, e correttamente, anche il difensore dell’imputato, si era astenuto dal richiederle troppi dettagli). Appare dunque assolutamente comprensibile che Ayan al momento della deposizione, parlando dell’amica, senza una precisa domanda al riguardo, avesse omesso l’episodio del vestito, senza che ciò vada ad inficiare una valutazione in positivo circa l’attendibilità del loro rispettivo racconto.
Tra l’altro la brutalità del trattamento riservato da ISMAIL alle donne è stata riportata anche da NIMCAM che ha riferito di una ragazza di nome UBAH che era morta dopo essere stata portata via dall’imputato ed essere stata percossa (cfr paragrafo 2.5).

Le dichiarazioni delle due ragazze sono inoltre apparse coerenti con i risultati della visita ginecologica cui sono state sottoposte. Infatti gli esiti cicatriziali riscontrati ed i malesseri dalle stesse raccontati sono risultati pienamente congrui con riferimento al loro racconto (cfr certificati medici del Servizio Violenza Sessuale della clinica Mangiagalli [33]).

             La deposizione di IDO ed AYAN ha una triplice valenza: di conoscenza diretta per le violenze personalmente subite; di conoscenza de relato per quanto appreso l’una dall’altra; di deduzione per quanto concerne gli stupri che, anche se non confidati, avevano dedotto aver subito anche altre ragazze presenti insieme a loro nel campo. Deduzioni del tutto logiche che sono state riportate anche da molti altri testi e che scaturivano ogni qual volta l’imputato portava via dal capannone delle donne, di cui, spesso, venivano sentite le urla, che vedevano rientrare il giorno dopo, meste, piangenti ed impaurite.
Anche se le accuse formulate a carico di ISMAIL con riferimento a queste altre  donne si sono basate più che altro su delle deduzioni dei testi, queste sono apparse corrette perché hanno trovato fondamento in circostanze di fatto, che sono state ricordate da ciascuno in modo sicuro e che appaiono di univoca interpretazione, tenuto conto tra l’altro dell’esperienza riferita da IDO ed AYAN e di quella subita, seppur in contesti diversi, da SAFIA e LULU.

             In forza delle dichiarazioni dei testi che hanno parlato di violenze fatte ISMAIL quasi quotidianamente ai danni di più donne, alcune delle quali più specificamente individuate (le 3 ragazze indicate da Abduli, la ragazza di nome UBAH, indicata da Nimcam [34], Munà ed altre ragazze che lo avevano raccontato a DAHIR; le ragazze che lo avevano riferito a SAFIA; SUAD, indicata da OMAR), si può ritenere dimostrato che l’imputato non si fosse limitato a violentare solo IDO ed AYAN, ma varie donne, certamente più delle  12 ragazze di cui si è ora parlato.

 E le vessazioni subite da tutti i prigionieri, le loro condizioni di deprivazione, la costante minaccia di guardie armate, spiegano a sufficienza perché alcune ragazze ed in genere gli uomini del campo non si fossero ribellati per il trattamento riservato alle donne, così come peraltro non avevano fatto nemmeno a fronte delle gravissime violenze che subivano indiscriminatamente tutti i profughi.

2.5  GLI OMICIDI
Alcune delle persone offese hanno raccontato di persone morte a seguito delle percosse ricevute da ISMAIL  ed analizzando le loro dichiarazioni, tenendo conto dei periodi in cui i testimoni sono stati al campo di Bani Walid, può notarsi non solo come analoga sia stata la  condotta dell’imputato con riferimento ai diversi episodi, ma anche come la maggior parte di questi ultimi siano stati confermati specificamente dal racconto di più di una delle parti lese.

Per chiarezza espositiva si procederà ora ad esaminare le dichiarazioni delle parti lese con riguardo alle morti che hanno fatto seguito alle violenze di ISMAIL riportando i vari fatti seguendo un ordine cronologico e richiamando dapprima le dichiarazioni dei testi che hanno descritto compiutamente gli episodi, quindi quelle delle altre parti lese che erano presenti al campo nel periodo di riferimento.

Per l’anno 2015 tre sono gli episodi descritti nello specifico. ABDULI riferiva infatti di aver visto un ragazzo “massacrato”, riportato nell’hangar col collo rotto, che era morto dopo due settimane  ed una ragazza, che aveva partorito ed era morta dissanguata dopo un mese, anche perchè nonostante avesse chiesto più volte aiuto all’imputato, non aveva ricevuto nessuna cura, ma anzi era stata solo da lui ulteriormente percossa. AIDOUROUSSE riferiva che circa due mesi dopo il suo arrivo aveva visto morire vicino a lui due ragazzi dopo una breve agonia per le percosse ricevute da parte di ISMAIL.

Più in particolare ABDULI  (l’unico  che  era  stato al  campo nel primo semestre 2015 e che poi era riuscito a scappare) ha riferito che:  quando era arrivato al campo di Bani Walid, Ismail era già lì e già esercitava la sua attività.

Aveva assistito da vicino alla morte del primo ragazzo perchè dormivano accanto nel capannone. Un giorno Ismail aveva portato fuori dal capannone questo ragazzo, che al ritorno era stato riportato di peso dai guardiani perché a causa delle violenze subite, non era in grado di camminare e neppure di parlare. Ismail gli aveva spezzato il collo.

Dopo circa due settimane, era morto e i guardiani avevano portato via il corpo. Nonostante in quelle due settimane fosse stato molto male nessuno gli aveva prestato soccorso.
Il teste era certo che la famiglia del ragazzo non aveva pagato i soldi.
Somala con bimboEra morta anche una ragazza, presente nel campo dal 2014, che aveva avuto molti problemi di allergie. La ragazza era incinta ed aveva partorito il bambino dentro il campo. Il neonato era morto subito per le condizioni igieniche in cui era nato e dopo un mese era morta anche la madre per mancanza di cibo e di medicinali. A seguito del parto la ragazza aveva perso molto sangue, non stava bene. Quando la donna aveva provato a chiedere aiuto ad Ismail, questi per tutta risposta l’aveva picchiata con un bastone.

Il teste riferiva che nel corso di quell’anno in cui era rimasto al campo di Bani Walid le persone morte per le violenze subite erano state circa una trentina. Non le aveva viste personalmente, ma lo aveva sentito solo raccontare, anche perché quando le persone venivano massacrate di botte, erano agonizzanti, venivano portate fuori dall’hangar e gli altri prigionieri si accorgevano solo del fatto che non tornavano più.  Per questo aveva ritenuto che fossero morte a causa di tutte le botte che avevano preso da ISMAIL,  anche perché in generale era sempre e solo Ismail a picchiare i prigionieri.

AIDOUROUSSE  ha riferito che ricordava con certezza che un giorno, un paio di mesi circa dopo il suo arrivo (quindi intorno all’agosto 2015) Ismail era entrato nell’hangar con i guardiani ed aveva iniziato a colpire con calci e bastonate due ragazzi giovani. Ricordava bene l’episodio ed aveva visto bene perché era vicino a loro. A seguito di queste violenze, i due ragazzi avevano iniziato a rantolare ed usciva sangue dalle loro bocche. ISMAIL e le guardie libiche li avevano trascinati fuori dal capannone. Subito dopo aveva sentito delle urla, forse anche degli spari. Poi non li aveva più rivisti.

Per quanto attiene ai primi due episodi l’unico teste che ne ha riferito è anche l’unico che si era trovato al campo di Bani Walid nel primo semestre del 2015.

In ogni caso, pur in mancanza di conferme dirette su questi fatti da parte di altri testi, ABDULI risulta essere un testimone assolutamente affidabile per tutto quanto già commentato a proposito del suo racconto più in generale. Per quanto riguarda poi questo argomento, il suo ricordo è risultato sicuro ed il suo racconto è apparso del tutto credibile.   Infatti alcuni episodi (quelli relativi ai due ragazzi ed alla ragazza) sono stati raccontati con estrema chiarezza da ABDULI che ha affermato di averli potuti osservare da vicino, essendo  accaduti in prossimità dello spazio in cui egli dormiva all’interno del capannone. Inoltre il teste ha descritto in modo preciso e diversificato i due episodi, rappresentando in modo differente sia le condotte dell’imputato (l’una più evidentemente commissiva, l’altra più evidentemente omissiva), sia il modo in cui li aveva appresi. Ha dichiarato da un lato che era stato ISMAIL a portar fuori il ragazzo ed a spezzargli il collo. Ha detto che il ragazzo non era morto dopo qualche giorno nel capannone, aggiungendo che le sue gravissime condizioni erano chiaramente percepibili e che nessuno gli aveva prestato soccorso. Per quanto riguarda la ragazza, il teste non ha riferito di violenze inflittele da ISMAIL, ma ha detto che la stessa dopo aver partorito aveva continuato a perdere sangue e che quando aveva chiesto aiuto all’imputato questi l’aveva percossa.  

Per quanto riguarda gli altri morti (la trentina di morti di cui aveva sentito raccontare) è stato lo stesso teste ad affermare di averne solo sentito parlare ed il percorso logico per cui li avevano imputati  ad ISMAIL.  

Per queste ultime morti peraltro il teste ha ammesso di non poter indicare specificamente chi ed in che occasione gliene avessero parlato, né essere più preciso sul numero, sulle circostanze e sul periodo in cui erano avvenute, per cui il suo racconto non permette di addebitare eventi specifici alla responsabilità dell’imputato. Anche questo racconto, tuttavia, rileva evidenziando come la morte dei prigionieri non fosse un fatto eccezionale e concorrendo  quindi alla definizione dell’elemento soggettivo che ha caratterizzato le condotte dell’imputato per gli altri episodi più specificamente ricostruiti.

Il racconto di AIDOUROUSSE, pur riguardando un episodio diverso rispetto a quello descritto da ABDULI, risulta del tutto analogo (il primo ha parlato di due ragazzi picchiati a morte, il secondo solo di uno). Ed anche per questo le conclusioni di AIDOROUSSE circa il decesso dei due ragazzi a seguito delle percosse, pur fondandosi su una sua deduzione, appaiono condivisibili.

E non sorprende che i fatti riportati da ABDULI non siano stati confermati da AIDOUROUSSE, che è giunto al campo circa 10 mesi dopo il primo. Né che l’episodio riferito da AIDOUROUSSE non fosse stato conosciuto anche da ABDULI, dal momento che quest’ultimo ha riferito di essere stato nel periodo di sua permanenza nel campo tra le persone che venivano condotte a lavorare fuori dal capannone fino al tramonto.

Tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016 si colloca un altro episodio di morte riguardante due ragazzi picchiati violentemente e poi trascinati nel al capannone con delle corde al collo da ISMAIL. Di questo riferiva IDO. Altri testi (ABDULQANI, NUUR e SAFICI) riferivano di averne sentito parlare.

IDO ha riferito che:

due ragazzi, di circa vent’anni, che si trovavano al campo già prima del suo arrivo e che ormai erano lì da molto tempo perché le loro famiglie non riuscivano a pagare, erano stati portati fuori dal capannone da Ismail intorno alle 14.00 (IDO si orientava per gli orari in base alle preghiere).

Aveva poi notato dalla porta dell’hangar rimasta aperta ISMAIL che li picchiava (aveva visto perché le violenze si erano consumate subito fuori nella parte antistante la porta del capannone).

Qualche ora dopo ISMAIL stesso aveva riportato i due ragazzi dentro l’hangar trascinandoli e dicendo rivolto a tutti gli altri: “vedete queste persone che ho, come li ho uccisi, chi non manderà i soldi gli succederà questo”. I due ragazzi, stesi a terra al centro del capannone esanimi, avevano delle corde al collo. Ismail li aveva lasciati lì per un quarto d’ora circa, affinchè servisse loro da monito (IP 27.01 p. 34). Poi, tempo dopo, quando Ismail l’aveva portata nella sua stanza per violentarla, le aveva detto che i due ragazzi li aveva uccisi appendendoli per il collo (p. 72).

Affermava che AYAN non era presente quando era accaduto questo fatto perché prima Ismail l’aveva portata via, e come succedeva spesso l’aveva trattenuta più di un giorno a casa sua.

La ricchezza di dettagli con cui IDO ha riferito il fatto, la conferma al suo racconto da parte di altri testimoni, avvalorano l’attendibilità anche su questo argomento della ragazza.

Tra i testi presenti al campo di Bani Walid in quel periodo risultano AYAN, ABDULQANI, NUUR e SHAFICI. E se AYAN non ha ricordato l’episodio (ma la stessa non era stata presente a detta di IDO), ABDULQANI ha affermato comunque che seppure non aveva assistito personalmente a questo episodio, ne aveva  tuttavia sentito parlare. E che  ABDULQANI non avesse notato l’accaduto non stupisce. Infatti IDO ha riferito che i corpi dei due ragazzi erano stati esposti nel capannone come monito solo per circa 15 minuti. Inoltre ABDULQANI ha riferito di essere stato molto male per circa due settimane (in cui  era rimasto in uno stato di semi incoscienza, sempre fermo al suo posto, a causa delle violenze subite) ed ha affermato che le persone che gli avevano parlato di questi ragazzi gli avevano detto che il fatto era accaduto proprio nel periodo in cui lui era stato in dette condizioni. 

L’episodio trova inoltre ulteriore conferma nelle dichiarazioni di SHAFICI, che seppur non presente al campo nei primissimi mesi dell’anno in cui erano morti i due ragazzi, ha riferito che a Febbraio, quando era arrivato al campo, aveva sentito dire che prima del suo arrivo due ragazzi erano stati uccisi e i loro corpi erano stati lasciati per un po’ di tempo all’interno del capannone.
Infine anche NUUR ha confermato quanto detto da SHAFICI, affermando di aver saputo che in quell’occasione Ismail aveva lasciato i corpi dentro al capannone come “insegnamento affinchè gli altri pagassero subito i soldi” (IP 27.01 p. 95)
Le dichiarazioni di questi testi (la testimonianza diretta di IDO, quella de relato di Abdulqani, Shafici e Nuur) non possono essere messe in dubbio solo in forza dell’assunto sostenuto dall’imputato di essere stato esile e debilitato e di aver avuto una lesione ad un braccio che gli avrebbe impedito di trascinare i due cadaveri. L’asserita menomazione al braccio di ISMAIL non gli aveva infatti impedito di picchiare violentemente ed in numerosissime occasioni vari prigionieri, così come hanno attestato tutte le parti lese e quindi non può certo ritenersi essere stata tale da precludergli la possibilità di trascinare dei cadaveri  per pochi metri.       

Sempre nell’anno 2016, intorno ai mesi di Febbraio e Marzo si colloca la morte di due ragazzi cui Ismail aveva sfondato il torace con una spranga di ferro, che aveva fatto portar fuori dal capannone quando ormai rantolavano e che non erano più tornati. Di tale episodio riferivano in modo conforme più testi: ABDULQANI, NUUR e SAFICI.

ABDULQANI ha riferito che:

al suo arrivo nel campo vi erano due ragazzi somali, giovanissimi, che erano presenti da molto tempo a causa del mancato pagamento del costo del viaggio da parte delle rispettive famiglie. I due ragazzi erano ridotti già come due scheletri e per questo non potevano lavorare. ISMAIL “Non li faceva mangiare apposta perché diceva che era troppo tempo che erano lì ed i loro familiari non mandavano i soldi”

Una mattina, prima di uscire per andare a lavorare, aveva visto Ismail ed i suoi uomini accanirsi contro questi due ragazzi, che  avevano picchiato violentemente con tubi di gomma, bastoni e tubi di ferro. Quando era rientrato dal lavoro nel pomeriggio, aveva visto che avevano ripreso a picchiare questi due ragazzi con bastoni, tubi di gomma, con “calci con gli scarponi sul corpo e sulla testa”. Li avevano massacrati tanto che a un certo punto ai due ragazzi si erano ribaltati gli occhi verso l’alto e avevano cominciato a rantolare. A questo punto li avevano portati fuori dal capannone e non erano più tornati.

NUUR ha riportato che:

in quella occasione Ismail era entrato nel capannone con una spranga di ferro, aveva chiamato due ragazzi per nome intimando loro di alzarsi e una volta in piedi aveva iniziato a colpirli tanto forte da sfondar loro il torace, lasciandoli agonizzanti. Poi li aveva portati fuori, nella stanza delle torture. Per un po’ di tempo avevano sentito delle urla e poi più niente. Da allora i due ragazzi non erano più tornati.

SHAFICI a sua volta ha dichiarato che:

Ismail aveva picchiato selvaggiamente i due ragazzi con una spranga di ferro nel capannone. Ricordava che i due ragazzi piangevano mentre li portavano fuori, poi si erano sentite le loro urla e non li avevano più rivisti.

Qualche tempo dopo aveva saputo da un altro migrante che questi era stato mandato da Ismail a seppellire i corpi di due ragazzi e che aveva visto che i cadaveri delle due vittime erano completamente deturpati dalle percosse e anneriti dalle bruciature.

Tutti e tre i testi hanno dunque affermato di aver assistito alle violenze perpetrate da ISMAIL ai danni di questi due ragazzi, perché molto vicini al punto del capannone in cui il fatto era avvenuto. Mentre i primi due testi hanno manifestato di aver dedotto la morte di questi ragazzi dal fatto che non erano più tornati nel capannone, Shafici ha riferito di aver appreso direttamente della loro morte da un altro profugo che era stato mandato a seppellirli.

La chiarezza espositiva e la concordanza del racconto, insieme ai dettagli diversi riportati da ciascuno dei testi, avvalorano l’attendibilità delle loro testimonianze,  anche su questo punto.

Per completezza occorre rilevare che altre parti lese, seppur presenti al campo di Bani Walid nel periodo in cui si sono svolti tali fatti, non ne hanno parlato. Si tratta di IDO, NIMCAM ed AYAN (quest’ultima peraltro riferiva genericamente di aver sentito parlare di due persone uccise). Tuttavia più volte i testimoni hanno spiegato che non sempre era possibile vedere bene cosa stesse accadendo nel capannone perché lo spazio era molto grande e perché all’interno vi erano più di 500 persone.  Hanno affermato altresì che non potevano conversare liberamente tra loro (IDRIS) e che addirittura temevano che se avessero criticato le condotte di ISMAIL questi avrebbe potuto saperlo tramite le sue spie ed avrebbe potuto punirli (ABIDARHAM).

Intorno al mese di Aprile 2016 erano intervenuti ancora altri episodi, raccontati da SAFIA , da ABDIRAHMAD e da NIMCAM. In particolare i primi due, nel riferire delle morti che potevano addebitare direttamente all’imputato, raccontavano di un ragazzo che dopo essere stato percosso a morte da ISMAIL era stato lasciato tre giorni al sole come monito. I tre testi riferivano poi di altre morti e di analoghe condotte di ISMAIL.

SAFIA ha riferito che:

nei circa quattro mesi in cui era rimasta al Campo Kalifa aveva visto morire 3 persone a seguito delle percosse ricevute. Andando in bagno a volte aveva visto ISMAIL picchiare “selvaggiamente” i ragazzi che aveva fatto uscire dal capannone perché non pagavano.

Migrante uccisoUna volta aveva visto picchiare violentemente un ragazzo che era stato imbavagliato, per non far sentire le grida, e che era appeso per i polsi. Ismail lo aveva picchiato violentemente con un tubo di ferro in tutte le parti del corpo. Quando il ragazzo era stato riportato dentro il capannone, stava malissimo, camminava piegato su se stesso ed era pieno di abrasioni su diverse parti del tronco e sulle braccia. Molte altre volte aveva visto il ragazzo tornare nelle stesse condizioni. Dopo due mesi dal suo arrivo aveva visto che questo ragazzo dopo essere stato “massacrato” da Ismail , rientrato nel capannone si buttava a terra, rantolava e vomitava sangue. Lei insieme ad altre persone che si trovavano vicino alla vittima avevano provato a fargli bere del latte, ma il ragazzo non si era ripreso e dopo il tramonto era morto. Hajii aveva ordinato a due prigionieri di portare fuori, nel luogo dove effettuavano i pestaggi, il corpo del ragazzo. Il suo cadavere, poi, era stato lasciato fuori dal capannone per tre giorni, avvolto in una coperta. Ismail, per quei tre giorni, aveva mostrato il corpo del ragazzo morto, come monito per quelli che dovevano pagare, dicendo che quella era la fine che avrebbe fatto chi non avesse pagato il riscatto. Dopo tre giorni alcuni sorveglianti avevano portato via il cadavere.

Così ISMAIL aveva fatto anche con i corpi delle altre due vittime che lui stesso aveva massacrato (la teste riferiva che pur non avendo personalmente visto i ragazzi mentre venivano picchiati, aveva dedotto che fossero stati percossi e torturati avendoli visti tornare nelle stesse condizioni del ragazzo di cui aveva parlato in precedenza).

ABDIRAHAM ha riferito che:

il giorno del suo arrivo al campo di Bani Walid, intorno all’Aprile 2016, di fronte al capannone giaceva un cadavere in stato di decomposizione, avvolto in una coperta, che la sera stessa era stato portato via. In un secondo momento aveva saputo che quel cadavere era lì da tre giorni. Non aveva potuto saper di più a riguardo perché non potevano parlare di quanto accaduto perché c’erano persone che poi avrebbero riferito ad ISMAIL (p41 trascr).

NIMCAM ha affermato che:

tre, quattro mesi dopo il suo arrivo (Gennaio 2016) al campo aveva dovuto, insieme ad altri uomini, seppellire il cadavere di una donna.
Il teste riferiva che una mattina Ismail era entrato nel capannone e lo aveva chiamato insieme ad altri tre uomini e li aveva portati nella sua casa. Subito all’ingresso c’era un corpo steso per terra, coperto. Aveva ordinato di prenderlo e di salire in macchina. Arrivati nel deserto avevano dovuto seppellire il cadavere e mentre lo facevano si era scoperta una parte del volto della salma e il teste l’aveva riconosciuta. Era sporca di sangue sul viso e sulla testa. Si chiamava UBAH ed era somala. Era una di quelle ragazze che Ismail portava spesso nella sua casa e poi la mattina rientravano. Il teste non sapeva dire se la sera prima quella ragazza fosse stata presa da Ismail perché lui dormiva. Tuttavia quando era rientrato nel capannone, dopo aver seppellito il corpo, altre persone gli avevano detto che la sera prima Ismail aveva portato fuori UBAH per condurla nella sua stanza, come spesso accadeva.  

I testi hanno parlato di episodi simili, ma diversi.

Per quanto riguarda uno dei tre morti di cui ha parlato SAFIA, le sue parole hanno trovato conferma nelle dichiarazioni di ABDIRAHAM.    

Per quanto riguarda gli altri due ragazzi morti e la donna di cui hanno parlato rispettivamente SAFIA e NIMCAM si tratta di episodi riferiti solo da questi testi. Tuttavia, tutte le parti lese hanno offerto una spiegazione logica del perché queste notizie non circolassero, e già di per sé le dichiarazioni di questi testi  anche su questo argomento appaiono pienamente credibili e quindi elemento di prova sufficiente a fornire dimostrazione dei fatti che hanno detto di aver vissuto. Ancora una volta le loro affermazioni sono apparse connotate da misura e precisione (i dichiaranti hanno specificato di aver saputo direttamente di un numero esiguo e preciso di morti) ed hanno trovato conferma indiretta nella pluralità di episodi analoghi narrati da altre parti lese e nei gravissimi episodi di violenza addebitati da tutti all’imputato.

In particolare il racconto sulla morte di UBAH, oltre ad essere stato ricostruito da NIMCAM in modo circostanziato (distinguendo quanto aveva visto direttamente, quanto narratogli e quanto dedotto), ha trovato conferma nella descrizione da parte di IDO ed AYAN delle violenze dalle stesse subite. Le due ragazze infatti hanno affermato che ISMAIL non si era limitato a violentarle (facendole persino svenire per il dolore, provocando loro delle lacerazioni che avevano sanguinato per giorni), ma le aveva anche picchiate (con bastoni, cinture etc). Trova altresì conferma in quanto narrato con riguardo  all’altra donna morta dopo il parto, che mentre agonizzava, era stata nuovamente percossa dall’imputato (vedi episodio del primo semestre 2015 riferito da ABDULI).

Tra  Maggio/giugno 2016 viene riferita la morte da AOULAE nel campo di Sabrata da YUSUF e OMAR.

YUSUF ha raccontato che:

aveva visto il pestaggio della vittima mentre erano a Bani Walid, perchè la porta del capannone era rimasta socchiusa. Il ragazzo si chiamava AOUALE ed era al campo ormai da moltissimo tempo a causa delle difficoltà economiche della famiglia.

Quel giorno, Ismail lo aveva portato fuori dal capannone, legato con mani e piedi dietro la schiena e lo aveva picchiato brutalmente con un tubo di plastica. Poi lo avevano riportato dentro di peso perché era incosciente e incapace di camminare.

Dopo tre giorni AOUALE stava ancora molto male a causa delle plurime percosse subite. Non si era più ripreso.

Successivamente il ragazzo era stato portato a Sabrata e quando anche il teste vi era arrivato (verso fine giugno), aveva saputo che AOUALE era morto.

OMAR ha riferito che:

al suo arrivo al campo (a fine marzo 16) c’era un ragazzo di 23/24 anni che veniva sempre picchiato da ISMAIL perché i familiari tardavano a pagare.

la vittima era in pessime condizioni, era la persona che stava peggio di tutti, aveva visto che presentava segni di frustate su tutto il corpo, infezioni sulle mani e testicoli gonfi a causa delle scariche elettriche. Non poteva neppure andare in bagno da solo per le percosse ricevute.

Quando il teste era andato a Sabrata, anche AOUALE (la cui famiglia evidentemente aveva pagato il dovuto) era stato trasferito. A Sabrata AOUALE aveva iniziato a stare malissimo, ma era ancora cosciente e chiedeva aiuto. Non aveva direttamente ascoltato il suo racconto. Non l’avevano portato in ospedale ma gli aveva fatto delle flebo li nel capannone (cfr p 57 delle trascrizioni).

Di questo episodio non hanno parlato né SAFIA, né LULU, ma le stesse non avendo ancora pagato il prezzo richiesto, avevano subito a Sabrata un trattamento diverso rispetto agli altri profughi (la prima ha detto di essere stata picchiata tutti i giorni, mentre la seconda ha riferito espressamente di essere stata tenuta in una camera a parte).

La morte di AOUALE, tra l’altro, è stata confermata anche dall’imputato (sia nel corso dell’interrogatorio del 19.1.17 in cui riferiva solo che il ragazzo si era sentito male, non riusciva a respirare, avevano chiesto aiuto, lo avevano portato via e poi li avevano informati della sua morte, sia nel corso dell’esame dibattimentale in cui ancora una volta ha riferito della sua morte senza spiegarne i motivi cfr trascr p 56).

Le dichiarazioni sopra riportate non risultano smentite dalle parole dei testi che hanno detto di non aver visto, nè sentito parlare di persone che erano state uccise nel campo.

DAHIR ha dichiarato di non aver visto nessuno essere ucciso. Nondimeno ricordava, anche se in modo generico, ha riferito di aver visto persone morire per malnutrizione ed ha raccontato a sua volta dei suoi connazionali portati fuori da ISMAIL che al ritorno presentavano tracce evidenti delle percosse. Alcuni erano sanguinanti, con ferite aperte sulla schiena a causa delle frustate. Aveva saputo che qualcuno veniva torturato con la corrente elettrica ovvero facendogli colare della plastica di sacchetti bruciati sulla schiena, che altri venivano percossi con tubi di gomma, che tutti, lui compreso, erano stati minacciati di morte da ISMAIL.

ABDULLAI, nell’unica occasione in cui è stato sentito, peraltro in maniera piuttosto veloce, perché era stato previsto di approfondire la sua audizione nei giorni successivi, non ha riferito di aver visto delle morti.

Nel valutare queste dichiarazioni deve considerarsi per quanto riguarda il primo teste che il periodo in cui lo stesso era stato nel campo di Bani Walid era stato breve (poco più di due mesi – da fine marzo a fine maggio-) e per quanto riguarda il secondo, che ABDULLAI  era uno dei profughi  che veniva portato via durante il giorno per lavorare fino al tramonto e per questo potrebbe aver ignorato quanto accadeva nel capannone.

SI nota infine che il racconto di OMAR a proposito delle cure prestate ad AOUALE, non smentisce di per sé le dichiarazioni degli altri testi con riguardo all’assenza di cure mediche per i migranti, assenza totale con riguardo al campo di Bani Walid, presenza palesemente insufficiente a Sabrata.

3.  Le dichiarazioni della MOGLIE dell’imputato

Si è ritenuto opportuno riportare con un certo dettaglio le dichiarazioni della sigra Hamdi Ali Abubakar, moglie dell’imputato, perché è parso importante rendere appieno l’atteggiamento di questa teste che pur essendo stata introdotta dalla difesa di ISMAIL, pur non avendo mostrato un atteggiamento ostile nei riguardi di quest’ultimo, risulta aver riferito circostanze che danno ulteriore conferma all’attendibilità delle accuse delle parti lese.

La moglie dell’imputato ha descritto un viaggio parzialmente diverso da quello raccontato dai testimoni nelle dichiarazioni precedentemente esaminate.

Nel 2011 era partita dalla Somalia, dove viveva con i genitori, a loro insaputa, sia perché non lo riteneva un posto sicuro per le ragazze, sia perché uno dei capi di Al Shabab (che comandava il suo paese natio Afgooye), aveva chiesto la sua mano e lei non voleva sposarlo.
Intorno al maggio 2012 era arrivata in Uganda, passando per il Kenya, seguendo dei commercianti. Si era trasferita poi nel Sudan del Sud, ed era rimasta là nella città di Gudele, per circa nove mesi, nel corso dei quali aveva conosciuto l’imputato (il cui vero nome era Osman, ma che aveva soprannominato Ismail). Si erano sposati nel Gennaio 2013 ed era rimasta incinta. Lavorava ma guadagnava poco e così aveva contattato i suoi familiari ed aveva chiesto loro il denaro necessario alla prosecuzione del viaggio fino in Libia, viaggio che aveva fatto questa volta tramite degli organizzatori per il prezzo di 2000 dollari. Non era mai stata picchiata durante il viaggio, poteva capitare che non mangiassero, ma non aveva mai assistito a violenze ai danni dei profughi.
Giunta in Libia nella città di Sabha (nell’aprile 2013), aveva contattato una seconda organizzazione per completare il viaggio fino all’Europa al costo di 1.700 dollari. Dopo un mese di permanenza a Sabha, dove aveva abitato in una casa in affitto, era giunta a Tripoli e si era imbarcata.

Era giunta in Italia, a Lampedusa, il 4 Agosto del 2013, aveva preso un aereo in direzione Roma da cui, il giorno seguente l’arrivo, era andata a Frosinone dove era rimasta per tre mesi e nel Novembre dello stesso anno aveva partorito la bambina, figlia di Ismail. Dopo di che era stata mandata a Campobasso, dove le avevano fornito i documenti e da era andata per 15 giorni in Austria per poi tornare a Roma e stanziarvisi in una casa occupata da Somali.

Quando la teste era partita per la Libia, Ismail, nonostante fosse incinta aveva preferito rimanere in Sudan, dove lavorava nella città di Giuba come macellaio, per poter contribuire, con i 200 dollari mensili che guadagnava, all’economia della sua famiglia che dalla morte del padre si era trovata nel disastro. Inoltre in quel periodo si era ammalato di malaria.

Dal giorno della sua partenza con Ismail si erano sentiti solo telefonicamente. Nel corso delle telefonate più volte gli aveva chiesto di raggiungerla e che gli avrebbe organizzato lei il viaggio fornendogli i recapiti della organizzazione con cui aveva viaggiato. Tuttavia la famiglia di Ismail era molto povera e non aveva i 2200 dollari necessari per pagare il viaggio.

Infine, intorno all’Ottobre del 2014, Ismail le aveva detto che i soldi del viaggio li avrebbe ricavati dalla vendita dei cammelli e che dunque sarebbe partito per raggiungere lei e la bambina. Ismail era partito ed era arrivato a Khartoum, dove la madre gli aveva inviato i 2000 dollari (ricavati dalla vendita della sua casa). Da Khartoum era giunto in Libia nella città di Sabha all’inizio del 2015. Qui era stato tenuto in ostaggio nel campo di Kalifa perché doveva pagare ancora denaro e non ne aveva.

A questo punto aveva parlato anche con Kalifa, responsabile del campo dove si trovava il marito, e questi le aveva intimato di far arrivare al più presto i soldi altrimenti Ismail sarebbe finito nei guai. Non sapendo come fare si era rivolta al proprio padre che le aveva mandato 300 dollari con cui Ismail aveva pagato parte della somma dovuta. A quel punto Kalifa si era reso disponibile a facilitare le sue conversazioni con Ismail dicendole che poteva sentirlo tramite lui alla sera. Così, chiamando sul cellulare di Kalifa, era riuscita a sentire ISMAIL ogni due settimane circa (aveva limitato i contatti solo per il costo delle telefonate).

Aveva saputo che anche Ismail era stato picchiato mentre si trovava al campo di Khalifa, così come altri profughi (come aveva saputo dai racconti di molte persone che erano passate da quel campo e che ne portavano ancora i segni).

Poi intorno a Giugno 2016 la sorella di Ismail le aveva detto che la quota del fratello era stata pagata. Peraltro non le aveva saputo né come, né in che misura. Ismail era così partito dalla Libia ed era arrivato in Italia ad Agosto 2016.

Una volta sbarcato Ismail si era diretto a Firenze e da lì l’aveva contattata telefonicamente.

Gli aveva mandato allora 200 euro che le erano stati prestati e gli aveva detto che lo avrebbe raggiunto assieme ad un’amica. Ismail le aveva risposto che non potevano trattenersi a Firenze in quanto i somali vivevano in case occupate e che il 6 Settembre sarebbe partito per Milano. Le aveva chiesto delle informazioni su come arrivarci e le aveva detto che una volta là avrebbe alloggiato a casa di un ragazzo somalo che lo avrebbe poi condotto in un centro di accoglienza per fare la richiesta di asilo.

Da quel momento non lo aveva più sentito, ma aveva saputo tramite la televisione del suo arresto ed aveva visto che sui giornali lo descrivevano come colui che torturava le persone in Libia.

La moglie dell’imputato ha manifestato sorpresa ed incredulità rispetto alle accuse rivolte al marito e di certo non ha mostrato un atteggiamento ostile nei suoi confronti. Ha giustificato infatti la  decisione di Ismail di farla partire per prima per l’Europa, ha affermato di essersi sempre tenuta in contatto con lui e con i suoi familari, di aver cercato di aiutarlo  economicamente nel viaggio per l’Europa, quando aveva saputo che ISMAIL  era un ostaggio di Khalifa ed era stato picchiato perchè non aveva soldi. Ha riferito infine di essere stata disponibile a raggiungerlo a Firenze.

Eppure dal racconto di questa teste si evincono dei particolari di non poco conto che danno conferma alle dichiarazioni delle parti lese e smentiscono quelle dell’imputato.

Innanzitutto la moglie dell’imputato ha confermato che la permanenza di quest’ultimo in Libia era iniziata nei primi mesi del 2015. Ha affermato inoltre che la famiglia dell’imputato versava in condizioni economiche disastrose (che avevano indotto ISMAIL a rimandare il viaggio per l’Europa e lei a richiedere l’aiuto del proprio padre per fargli mandare dei soldi). Infine la teste ha riferito di non sapere come il marito fosse riuscito a trovare il denaro per completare il pagamento dell’ultima e più consistente tranche del prezzo richiesto per il  viaggio (quella di 5.000 dollari).

 Ed ancora da questa testimonianza emerge che  Kalifa ad un certo punto aveva  facilitato i suoi contatti telefonici col marito mettendo a loro disposizione il proprio telefono. La teste ha riferito inoltre che con Ismail si era sentita telefonicamente ogni due settimane solo perché il costo delle telefonate dall’Italia alla Libia era molto elevato, attestando così una condizione di ISMAIL del tutto diversa da quella di tutti gli altri migranti (questi ultimi infatti avevano potuto sentire le rispettive famiglie solo una volta, al massimo due e solo per chiedere soldi mentre venivano picchiati per incentivare i pagamenti).

Matammud4.   Le dichiarazioni dell’IMPUTATO

L’imputato nel corso del suo esame ha cercato di presentarsi come un semplice migrante contestando non solo le accuse delle persone offese, ma anche le dichiarazioni di sua moglie.

Ancora una volta è apparso opportuno riportate con un certo dettaglio le sue dichiarazioni così da permettere di valutarle meglio, di coglierne tutte le contraddizioni, di soppesare le sue giustificazioni e l’assenza di segnali di resipiscenza.

L’imputato ha riferito che:

in Somalia viveva con la sua famiglia, nella città di Adale, sita fuori da Mogadiscio. Nel Luglio 2011, il padre, che lavorava per il Governo di Siad Barre, era stato ucciso durante un’irruzione nella loro casa da parte di sette persone armate. Oltre al padre erano morti anche un suo fratello e una sorella, mentre lui era rimasto solo ferito [35].

L’anno seguente aveva deciso di lasciare la Somalia per andare in Uganda ospite da uno zio, per lavorare e contribuire all’economia della famiglia. Per le stesse ragioni si era trasferito in Sudan nella città di Giuba, dove si era trattenuto per circa 4 anni e mezzo, tornando ogni tanto in Somalia a trovare la madre.

Durante la permanenza in Sudan aveva conosciuto la moglie che aveva sposato nel 2013. Nel Maggio di quell’anno sua moglie aveva intrapreso il viaggio per l’Europa, mentre lui aveva scelto di rimanere ancora in Sudan per continuare a lavorare ed aiutare economicamente la madre. Alla fine del 2014 erano cominciate delle guerre tra clan in Sudan. Così nel Maggio/Giugno 2015 la macelleria in cui lavorava aveva chiuso e aveva deciso di rientrare in Somalia, dove era rimasto fino alla fine del 2015.

A Gennaio 2016 era partito dalla Somalia con l’intenzione di arrivare in Europa e raggiungere in Germania la moglie, che gli aveva fornito i contatti degli organizzatori del viaggio, indirizzandolo verso un certo SOCDAL.

Prima di partire aveva già versato un acconto in banca di 2000 dollari (il documento prodotto in dibattimento indica come inviante un certo Cisman, che l’imputato ha affermato essere lui stesso, mentre come beneficiario un certo Haxemed Coloumbo. L’imputato ha sostenuto inoltre che la prestazione della garanzia bancaria o il bonifico era stato fatto dalla sorella, impiegando il ricavato dalla vendita di una mucca di proprietà della madre, all’inizio di Agosto 2015 [36]).

Arrivati in Kenya avevano atteso una settimana vivendo in una casa e poi avevano proseguito il viaggio verso il Sudan in cui era arrivato a metà Gennaio 2016, dove lui e gli altri sette erano stati arrestati, portati in carcere per un giorno e una notte e spogliati di tutti i loro averi, compreso il telefono cellulare che fino a quel momento aveva avuto con sé. In ogni caso, il beneficiario dei 2000 dollari era andato a prenderli in carcere e li aveva ospitati per tre giorni a casa sua. Da lì erano partiti alla volta della Libia passando per il deserto ed era arrivato ad Andesabia dove era rimasto per 25 giorni e nessuno gli aveva chiesto i soldi[37]. Poi era partito ed era andato in un campo vicino a Bani Walid nel marzo 2016 in cui era rimasto per 4 mesi, poi si era fermato per un mese a Sabrata.

L’imputato ha riferito che il campo di Bani Walid era nel deserto, era costituito da un grande capannone, recintato esternamente con delle mura. Nello stesso, al momento del l’arrivo del suo gruppo, erano già presenti 380 persone. Il campo era controllato da dei guardiani di nazionalità libica che erano armati e che la mattina seguente il loro arrivo li avevano portati fuori dal capannone intimando loro di pagare i soldi.

In totale la cifra dovuta per il viaggio ammontava a 7000 dollari. Per la tratta fino al campo di Bani Walid gli erano stati chiesti 4800 dollari, per quella fino a Sabrata altri 2200. Quando era arrivato a Bani Walid aveva già pagato 2000 dollari e gli avevano detto che entro i successivi tre giorni avrebbe dovuto completare il pagamento.  Sua madre aveva detto però che non aveva la possibilità di inviare i soldi entro tre giorni e per questo Kalifa, che fungeva da intermediario con i libici ed era sempre presente al campo, più volte lo aveva fatto parlare con i suoi familiari perché li sollecitasse(tutte le mattine, salve eccezioni, aveva la possibilità di chiamare la famiglia p. 18 trasc).

Kalifa era una persona che aiutava molto i somali e non aveva mai picchiato nessuno a differenza dei libici  (lui “non aveva mai visto un somalo picchiare un connazionale” [38]).

Alla fine dei quattro mesi comunque i suoi familiari erano riusciti a pagare tutti i soldi.

L’imputato ha affermato di essere stato picchiato anche lui dai libici durante la sua permanenza al campo, tuttavia non aveva visto e non aveva sentito parlare né di ragazze violentate, né di persone morte.

Una volta completato il pagamento si era spostato a Sabrata, che distava da Bani Walid circa due giorni e due notti di viaggio.
Il campo di Sabrata era diverso rispetto a quello di Bani Walid, non c’era un capannone e non era neppure recintato, si trovava vicino al costa da cui poi i migranti si imbarcavano.

A fine agosto si era imbarcato, aveva viaggiato nel barcone con altre 200 persone ed era sbarcato in Sicilia.

Al momento del suo sbarco la situazione era tranquilla,  non c’era molta confusione. Erano stati fermati a Trapani dalla polizia locale che aveva chiesto loro informazioni sugli scafisti, ma non avevano potuto dir nulla perché non li conoscevano. Da Trapani con altri 200 somali era stato portato vicino a Torino.

Al momento dello sbarco aveva dichiarato di essere sposato con Ubax, così come aveva fatto Shino rispetto ad Araxan, in modo da non essere separati.

Era stato destinato al centro di accoglienza di Settimo torinese ma da lì si era allontanato per andare a Firenze dove aveva saputo esserci altri migranti e dove sperava di trovare i soldi per raggiungere la moglie in Germania.

Era rimasto per qualche giorno a Firenze con le due ragazze. Li si era procurato i due telefoni cellulari poi sequestratigli ed era infine arrivato a Milano.

Il giorno del fermo si era recato presso il centro di accoglienza vicino alla stazione centrale per registrarsi, ma lo aveva trovato chiuso e dunque aveva aspettato fuori fino all’orario di apertura. Nel frattempo erano arrivati IDO, ABDULLAI e AYAN e l’avevano aggredito. Non capiva perché l’avessero fatto dato che con IDO erano amici e con AYAN aveva un rapporto quasi fraterno, perché era la moglie di un suo amico. Per questo l’aveva sentita sia tramite Facebook sia tramite telefono[39].

L’imputato ha affermato che a suo avviso Abdullai aveva sobillato contro di lui tutti gli altri testi (alcuni dei testi erano dello stesso clan di Abdullai). Ha ipotizzato altresì che i suoi accusatori, in ragione del rancore che nutrivano nei confronti di Khalifa, lo avessero denunciato ritenendolo  un suo parente in quanto appartenente allo suo stesso clan.

L’imputato ha spiegato infine come aveva avuto le foto trovate sul suo telefono ed ha contestato alcune delle dichiarazioni rese dalle persone offese (si tratta di obiezioni che non parso necessario riportare se non brevemente in nota o perché sono già state esaminate nel commentare i diversi argomenti trattati dai testi o perchè sono risultate ictu oculi infondate[40]).

*

Le dichiarazioni dell’imputato, così come si evince già da questa breve sintesi, rappresentano solo un maldestro tentativo di offrire una ricostruzione dei fatti che da un lato potesse cercare di  spiegare la coerenza complessiva delle testimonianze di tutte le persone offese sentite nel processo e dall’altro lato potesse cercare di  mettere  in dubbio la credibilità delle parti lese.

All’evidenza l’imputato si è reso conto che non poteva continuare a negare addirittura di aver conosciuto i ragazzi che lo accusavano. ISMAIL ha pertanto cercato l’unico modo per giustificare  il dettaglio e la sicurezza del loro narrato, la congruità delle emozioni espresse, i segni persistenti delle violenze subite e la coerenza complessiva dei racconti delle parti lese sostenendo che avevano incolpato ingiustamente lui di quanto avevano effettivamente  subito da parte però di altri.

In quest’ottica l’imputato ha illustrato innanzitutto di aver fatto un viaggio e di aver avuto esperienze del tutto simili a quelle dei testi, ha descritto in modo analogo i campi di raccolta in Libia, attribuendo peraltro ai soli carcerieri libici le responsabilità delle vessazioni subite dai migranti, peraltro molto ridimensionate rispetto a quelle descritte dalle parti lese.

Tuttavia, le molteplici contraddizioni che si sono rinvenute nel suo racconto già valgono a destituire di credibilità il fatto che abbia negato di aver posto in essere tutte le violenze addebitategli. Si tratta infatti di contraddizioni di peso, di contraddizioni che attengono specificamente alla sua condizione nel campo (come si nota per esempio con riferimento alle sue dichiarazioni circa la figura di Khalifa ed ai suoi rapporti con lo stesso, nonché con riferimento a come la sua famiglia avrebbe pagato la somma richiesta per il viaggio).

A ciò si aggiunge poi la non convincente smentita delle dichiarazioni di ABDULI e della moglie con riguardo al periodo in cui era stato in Libia. E non solo la credibilità di questi due testi risulta sicura in considerazione di come è stato rintracciato il primo (cfr paragrafo 1.3) e dell’atteggiamento non ostile della seconda, ma la tesi dell’imputato risulta smentita  anche da quanto lo stesso aveva riferito a LULU (alla quale aveva detto appunto che Khalifa gli aveva lasciato da gestire il campo per un anno e che alla fine di quell’anno avrebbe potuto imbarcarsi senza pagare altro, cfr sottoparagrafo 2.3.3). Risulta contraddetta poi pure dalla sua stessa produzione del documento bancario, che seppur di non accertata provenienza, è relativo ad un pagamento effettuato nell’agosto 2015, data che certamente non si concilia con la spiegazione fornita dall’imputato. Come già detto, infatti, la natura illecita dell’attività prestata dagli organizzatori del viaggio rende inverosimile un pagamento anticipato e soprattutto tramite banca. Inoltre del tutto diversa era stata l’esperienza delle parti lese che, anche secondo la prospettazione difensiva, non avrebbero comunque avuto alcun motivo per mentire su questo aspetto.

Pertanto, le sue dichiarazioni a proposito dell’organizzazione del campo di Bani Walid, sul numero di profughi ivi trattenuti, sul prezzo richiesto dall’organizzazione per il viaggio, sulle violenze subite per il ritardo della sua famiglia nel provvedere al pagamento, risultano solo una conferma dei racconti delle parti lese su tutti questi punti, senza costituire una smentita delle accuse a lui rivolte.

Anzi il fatto che lo stesso imputato abbia confermato che la sua famiglia era povera e non sia in alcun modo riuscito a provare che e come sarebbe stato completato il pagamento del prezzo richiesto dall’organizzazione per il suo viaggio, sono elementi che concorrono a dar credibilità a quanto lo stesso aveva rivelato a LULU (ovvero al suo cambiamento di ruolo da semplice migrante a principale aiutante di Khalifa per poter potersi poi imbarcare gratuitamente per l’Europa).

Inoltre, le giustificazioni fornite dall’imputato con riguardo ai motivi per cui i testi lo avrebbero accusato di essere stato lui il gestore del campo di Bani Walid e lui l’artefice delle maggiori violenze ivi perpetrate risultano prive di qualsiasi logica e fondamento.

Risulta infatti inverosimile che a condizionare le accuse di tutte le parti lese contro ISMAIL  fosse stato ABDULLAI che ha lasciato l’Italia senza preoccuparsi di ribadirle e specificarle e prima che fossero rintracciati dalla Polizia tutti i testi che non erano stati presenti il 26 settembre e che hanno confermato le accuse dei primi denuncianti.

Né si può comprendere perché mai i testi avrebbero dovuto rivolgere contro di lui accuse calunniose  solo per ritorsione indiretta rispetto a Khalifa, per il solo fatto di averlo visto in buoni rapporti con lo stesso. Questa tesi non risulta logica sia a ritener vero che Khalifa, come sostenuto da Matuammud, fosse sempre stato corretto, sia a considerare il racconto dei testi che hanno attribuito al primo la supervisione del campo (con minacce quanto al pagamento del viaggio e sporadiche violenze sessuali nei confronti delle donne, ma non atti di violenza specifici ai danni dei migranti)), mentre hanno imputato ad ISMAIL gravissime e quotidiane violenze.

           Non appare inoltre  credibile che le accuse mossegli da tutte le parti lese avessero avuto come motivazione i contrasti tra i clan di appartenenza.  Questa ipotesi è stata smentita in radice dal fatto che alcuni testi erano addirittura dello stesso clan dell’imputato, dal fatto che una teste come LULU non abbia mostrato alcun rancore rispetto ad ISMAIL e lo abbia  descritto come colui che l’aveva tenuta segregata con altri in una stanza ed aveva preteso con minacce di morte il pagamento del prezzo del viaggio,  senza però imputargli altri atti di violenza.  La tesi dell’imputato è stata infine confutata dal consulente del PM, prof. Ismail Miriam che ha illustrato come nell’attuale storia della Somalia i conflitti interclanici non rivestissero più un ruolo determinante. 

 La prof. Ismail Miriam (insegnante di antropologia dell’immigrazione presso la Regione Lombardia e l’Università di Modena, cittadina italiana e somala) ha chiarito come e perché si erano formate in Somali le aggregazioni familiari, c.d. clan, e quando si erano manifestati con maggior vigore i conflitti interclanici.

La professoressa ha riferito che nella storia della Somalia contemporanea i conflitti fra i clan (aggregazioni non su base etnica, ma solo familiare) avevano avuto un ruolo importante a seguito del crollo del governo militare di Siad Barre. Infatti con la disgregazione del Governo centrale, lo Stato si era disgregato e la Somalia era stata dilaniata da una guerra civile sorta nel 1991 e durata un ventennio per il conflitto divampato fra i diversi clan, riuniti sotto l’egida dei cd signori della guerra, che avevano tentato di imporre il proprio controllo sul territorio. Questo era durato fino agli anni 2005/06. Successivamente, però, era subentrato il problema del jihadismo, con il gruppo radicale denominato AL Shabaab ed il conflitto era continuato, ma non più su base clanica, bensì su base religiosa [41].

Il consulente passava quindi ad esaminare se i clan delle diverse persone offese erano avversi o dello stesso schieramento dell’imputato [42]. Precisava quindi che:

NUR, YUSSUF, OMAR, LULU erano dello stesso clan o sottoclan dell’imputato (Abgal);

ABDULQANI, AYAN, HOMZE ABDULI, IDRIS erano rispettivamente di una minoranza e di un clan che storicamente non era mai stata in guerra contro gli Abgal;

solo IDO, ADIRAHMAN, AIDOUROUSSE; NIMCAM erano di clan avversi rispetto a quello dell’imputato.

5.    Alcuni ARGOMENTI DIFENSIVI

Molti degli argomenti illustrati in favore dell’imputato dal suo difensore sono già stati analizzati nel corso delle osservazioni sull’attendibilità del racconto dei testi e nel commento alle dichiarazioni dell’imputato.

Rimangono ora da affrontare alcune delle considerazioni più generali esposte dal difensore di Matammud  che si è ritenuto opportuno valutare solo dopo l’esposizione di tutte le fonti di prova.

 Il difensore dell’imputato ha sottolineato che Ismail era un ragazzo come gli altri, che aveva poco più di 20 anni, che era stato spinto ad intraprendere il viaggio della fortuna dalle tragedie familiari e dal desiderio di raggiungere la moglie e la figlia in Europa.

Al momento del fermo, avvenuto dopo che era già arrivato da un mese in Italia, aveva ancora gli occhi incavati, le guance smunte e pesava 61 kg per 1.81 mt di altezza. Le sue cicatrici, le sue precarie condizioni fisiche e di vita, apparivano come i segni tipici  di una persona che aveva subito sevizie e deprivazioni e non di una persona che le aveva perpetrate ed imposte agli altri come capo di un campo profughi, come membro di una organizzazione criminale che aveva gestito il viaggio della speranza di migliaia di migranti con profitti milionari.

E se veramente fosse stato complice di una tale organizzazione sarebbe rimasto in Libia, non avendo alcuna necessità di cercare fortuna altrove. Invece, una volta arrivato in Italia si era trovato in un stato di indigenza, vivendo e muovendosi con mezzi di fortuna.

Inoltre, l’imputato aveva viaggiato a bordo dei barconi con tutti i migranti del suo campo ed una volta giunto in Italia non aveva avuto nessun comportamento che lasciasse intendere l’intenzione di nascondersi. Anzi aveva tentato di contattare varie parti lese (AYAN, IDO, Nimcam etc) e si era spostato in diverse città, recandosi pure presso il Centro di accoglienza di via Sammartini, dove non era escluso avrebbe trovato migranti che erano stati con lui in Libia.

Ed anche la scarsità numerica delle persone offese che si sono presentate a rendere la loro testimonianza contro l’imputato metterebbe in dubbio l’attendibilità delle loro accuse. I migranti passati per i campi di ISMAIL sarebbero infatti stati centinaia e la notizia del suo arresto si era rapidamente diffusa.

*

Tutti questi primi argomenti prospettati in difesa dell’imputato non paiono però convincenti.

Infatti seppure non è emerso come mai ISMAIL fosse stato scelto come gestore del campo, pure la sua età e le sue condizioni fisiche non appaiono dirimenti in proposito, dal momento che lo stesso ha mostrato una determinazione ed una violenza non comuni ed aveva potuto sempre contare sul supporto di varie guardie armate.  L’inerenza dell’attività di ISMAIL all’organizzazione del viaggio dei migranti, spiega inoltre a sufficienza come mai lo stesso avesse potuto affrontare il viaggio in mare con gli altri profughi senza timore di ritorsioni. Infatti i barconi erano guidati da persone della sua organizzazione ed era facile immaginare che i profughi, che fino ad allora non si erano mai ribellati nonostante tutte le angherie subite, non lo avrebbero fatto mentre si trovavano per mare, una volta che era così vicina la meta del loro sofferto viaggio. Inoltre le parti lese hanno riferito che ISMAIL era partito quando il campo di Sabrata era stato smantellato ed addirittura alcuni di loro hanno riportato che avevano appreso di contrasti tra l’imputato e Khalifa [43] e che la fama delle violenze del primo era ormai giunta anche in Somalia [44]. L’imputato risulta quindi aver lasciato la Libia alla volta dell’Europa anche per l’assenza di alternative. Non è detto poi che per la sua collaborazione all’attività dell’organizzazione che gestiva il viaggio dei migranti dalla Somalia fosse stato previsto altro compenso se non l’imbarco gratuito, così come lui stesso aveva riferito a LULU. Ed una volta arrivato in Italia, Ismail aveva potuto contare sulla confusione dello sbarco, sul loro smarrimento, sulle difficoltà di comunicazione dei migranti e sul loro smistamento in tanti centri diversi. Inoltre l’imputato sapeva che i migranti lo conoscevano solo col soprannome di ISMAIL e che non avrebbero quindi efficacemente denunciarlo.

Le accuse rivoltegli dalle parti lese non appaiono poi smentite dal fatto che l’imputato non si fosse peritato di entrare in contatto con loro e di spostarsi in diverse città. Ismail infatti ben potrebbe aver proseguito nel ritenere che nessuno avrebbe avuto comunque il coraggio di denunciarlo, sia perché li aveva ormai terrorizzati, sia perché la sua organizzazione aveva propagini anche in Italia (si ricorda che ad IDRIS aveva detto che “anche se mi vedrete in Europa, io sarò sempre sopra di voi, io sono il vostro Dio e non potrete dir niente”).

Quanto poi all’ultima osservazione del difensore è bene ribadire che non è stato solo il numero dei testi che hanno sostenuto accuse del tutto analoghe contro l’imputato ad aver convinto della loro attendibilità, ma è stato soprattutto il fatto che le abbiano sostenute tutte le persone che la Polizia è riuscita a rintracciare, senza che sia emerso alcun elemento a contraddirle.

Il difensore dell’imputato ha riconosciuto che la moglie di Matammud era apparsa credibile quando aveva detto che lo stesso era arrivato in Libia nel 2015, sostenendo che probabilmente il suo assistito si era confuso in proposito proprio per le difficilissime condizioni del viaggio. Ha sottolineato quindi che il lungo tempo della permanenza di ISMAIL nel campo di Bani Walid, la povertà della sua famiglia, conferivano verosimiglianza a quanto confidato dall’imputato a LULU, quando le aveva detto che non poteva far niente per lei, perché il responsabile era Ali Bur, che gli aveva dato in gestione il campo, anche se era solo un povero migrante come lei, con l’intesa che dopo un anno avrebbe potuto fare il viaggio gratuitamente.

La difesa ha sostenuto pertanto che anche a ritenere provato che l’imputato avesse gestito il campo di Bani Walid, pure doveva considerarsi che lo aveva fatto solo con un ruolo subordinato a Khalifa, eseguendo i suoi ordini, e solo per sottrarsi a morte certa. Per questo non gli si poteva addebitare alcun reato (nemmeno il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina).

Infine, per ciò che concerne le altre imputazioni, la difesa affermava che le prove raccolte non erano sufficienti a provare la colpevolezza di Matammud. In particolare per quanto concerne gli omicidi, il capo di imputazione poteva definirsi “evanescente”, mancando l’indicazione del numero delle vittime e la loro specifica individuazione, non risultando altresì provata in forza di una fonte sicura la morte delle persone riportate del tutto vago e solo in forza di una conoscenza de relato dalle parti lese. Inoltre solo con riguardo ad un omicidio sarebbe stato indicato il nesso tra la morte della vittima ed una specifica condotta di ISMAIL, mentre le altre morti sarebbero da ricondurre a cause esterne, rispetto alle quali l’imputato non aveva potere di incidere, quali la malnutrizione, l’assenza di cure mediche etc.

Pure questi argomenti difensivi non risultano convincenti e non giustificano l’azione dell’imputato.

Infatti, anche ad accedere alla tesi della difesa sui motivi per cui ISMAIL avrebbe accettato il ruolo di cogestore dei migranti, le condotte che le parti lese gli hanno attribuito risultano così gravi, così arbitrarie, così diversificate e reiterate, da rivelare che l’imputato le aveva poste in essere esorbitando volutamente dal compito di mantenere l’ordine nel campo  e di assicurare il pagamento della somma richiesta dall’organizzazione. Inoltre, anche a considerare che alcune delle violenze ascritte all’imputato risultano essere state esercitate pure in altri campi di raccolta dell’organizzazione, questo non vale di per sé a provare che l’imputato fosse stato costretto a porle in essere (fra l’altro lo stesso nulla ha detto in proposito). Tra l’altro, più parti lese hanno riferito che le condotte crudeli, venate da delirio di onnipotenza, erano adottate dall’imputato senza motivo e senza l’interferenza di Kalifa. Hanno inoltre affermato che le violenze di ISMAIL non erano nemmeno cessate dopo il pagamento della somma pretesa dall’organizzazione (cfr IDO, AYAN, IDRIS). Pertanto le azioni dell’imputato non possono ritenersi motivate e giustificate dalla necessità di salvare se stesso adeguandosi ai dettami dell’organizzazione criminale di cui aveva scelto di far parte.

Né all’esito di questa articolata istruttoria si può sostenere che le accuse a carico di MATAMMUD siano risultate evanescenti, né che le prove raccolte siano state solo de relato o tali da non permettere la precisa ricostruzione delle sue responsabilità, così come si preciserà nel prossimo paragrafo. E la mera circostanza che non sia possibile rilevare da fonti ufficiali il numero e l’identità dei morti di cui hanno parlato le parti lese non rileva dal momento che la testimonianza, laddove risulti credibile e non sia stata smentita da altre fonti probatorie, costituisce prova sufficiente del fatto ricostruito dal teste. E l’impossibilità, allo stato, di ottenere tali dati, dà conto semmai del perché nessuna preoccupazione a proposito avessero avuto gli organizzatori di questo viaggio clandestino.

  1. Inquadramento giuridico delle condotte dell’imputato

Le condotte illecite ascritte a Matammud sono risultate essere state compiute ai danni di un numero estremamente elevato di persone, ma non risultano per ciò stesso “evanescenti” come sostenuto dalla difesa dell’imputato.

Infatti, già la ricostruzione delle diverse condotte addebitate a Matammud è risultata sufficientemente specifica nella formulazione dei singoli capi di imputazione, tanto che la difesa dell’imputato non ne ha eccepito l’indeterminatezza (si nota tra l’altro che l’art. 417 cpp prevede espressamente che la richiesta di rinvio a giudizio deve contenere le generalità della persona offesa solo “qualora ne sia possibile l’identificazione”,  prevedendo quindi esplicitamente anche il caso contrario[45]).

Ed ora, alla luce dell’istruttoria, ancor più definiti appaiono i comportamenti adottati dall’imputato ai danni delle parti lese e degli altri migranti, ancor più chiare le modalità, gli intenti, i luoghi e i periodi con cui ed in cui sono stati commessi gli illeciti a lui addebitati.

Anche se con riferimento al reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e di sequestro di persona non è stato possibile individuare l’identità ed il numero preciso dei profughi su cui ha inciso l’azione di Matammud, questo non ha nuociuto al suo diritto di difesa in quanto in ogni caso le sue condotte sono state illustrate e specificate dai testi nei loro estremi oggettivi  in modo tanto chiaro e circostanziato da permettere   all’imputato di poterle efficacemente smentire.  Questo è apparso poi ancor più evidente con riguardo alle morti ed alle violenze sessuali a lui ascritte. Infatti i testi, anche se non hanno saputo indicare compiutamente il nome delle vittime, hanno comunque descritto episodi specifici, hanno delineato con precisione la condotta dell’imputato e le sue conseguenze, hanno precisato le circostanze di tempo e di luogo della sua azione, riferendo su fatti riguardanti persone che se non sono state individuate, sarebbero comunque individuabili, ed hanno in ogni caso permesso a Matammud di difendersi sul punto.

Il racconto delle persone offese ha quindi consentito di raccogliere tutti gli elementi essenziali per ricostruire i fatti storici all’esame, per procedere alla loro qualificazione dal punto di vista giuridico ed alla loro valutazione sotto il profilo sanzionatorio.  

Non vi è dubbio infatti che in forza delle testimonianze raccolte sia emerso in modo incontrovertibile che Ismail ha concorso a gestire per oltre un anno (almeno dalla fine del gennaio 2015 alla fine di maggio 2016) il campo di raccolta di  Bani Walid in cui, altri membri dell’organizzazione che coordinava il cd viaggio della speranza di  centinaia di migranti, avevano condotto numerosissimi profughi. E’ emerso altresì  che questi migranti, dopo essere stati fatti entrare clandestinamente in Libia, venivano trattenuti nel campo, privati di ogni libertà ed in condizioni di assoluto degrado, dai guardiani libici e dall’imputato. E’ stato provato infine che quest’ultimo li minacciava, vessava e picchiava, fino al pagamento della somma richiesta.

Ed anche se non è possibile ricostruire quante persone siano transitate nel campo di Bani Walid in tutto il periodo in considerazione e nemmeno quante abbiano poi continuato il viaggio verso l’EUROPA, il dato certo è che tutti i migranti che erano stati tenuti nell’hangar di detto campo, non avevano alcuna libertà di movimento di giorno, erano stati chiusi dentro nel capannone di notte, erano tutti controllati da guardie armate all’ordine di ISMAIL, tutti minacciati di morte, tutti soggetti direttamente o indirettamente alle violenze ed angherie esercitate da Matammud per ottenere il prezzo del viaggio.  

Seppure non è possibile individuare  il numero e l’identità dei profughi di cui ha così favorito l’immigrazione clandestina e che ha tenuto sequestrati nel campo di Bani Walid, pure è possibile affermare con sicurezza che l’azione di ISMAIL ha riguardato centinaia di persone (500 era infatti il numero di reclusi contenuti di volta in volta nell’hangar di Bani Walid anche secondo le parole dello stesso imputato). Ed è altresì possibile individuare chi fossero state le vittime dell’azione criminale di Matammud, ovvero tutte le persone che erano state recluse nel campo di Khalifa nel deserto libico nel periodo sopra indicato e solo quelle.

Parimenti, in forza delle testimonianze esaminate, è emerso con certezza che ISMAIL ha  violentato almeno una decina di donne (tra cui IDO ed AYAN) ed ha lui stesso cagionato la morte di almeno 13 prigionieri. Ed ancora una volta l’identità delle vittime seppur non indicata, appare in astratto determinabile, dal momento che i testi, che hanno reso testimonianze di sicura attendibilità, descrivendo in dettaglio le circostanze di questi reati, sarebbero in grado di riconoscere il soggetto di cui hanno parlato, laddove fosse loro sottoposta la sua fotografia. 

 Pertanto, si può ritenere che tutti i fatti reato contestati a Matammud risultino definiti nella loro materialità storica in modo sufficiente a permettere la loro valutazione nel rispetto dei diritti dell’imputato e delle parti lese: infatti se da un lato l’indicazione generica delle vittime non risulta pregiudizievole per l’imputato neppure sotto il profilo del ne bis idem, dall’altro lato della presente pronuncia penale potranno giovarsi anche le parti lese non espressamente nominate per pretendere il risarcimento del danno dalle stesse subito con riferimento ai fatti in addebito.

Appaiono interessanti in proposito le considerazioni esposte in una recente sentenza della Corte di Cassazione (cfr Cass pen sez 6, n 5092 del 30.1.14). Nella sentenza (relativa ad una condanna per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina aggravato e di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione) è stato affermato che la preclusione del ne bis in idem opera ogniqualvolta vi sia corrispondenza, dal punto di vista storico naturalistico, nella configurazione del reato (corrispondenza che si deve accertare comparando l’insieme delle circostanze concrete della condotta dell’autore, indissolubilmente legate tra loro nel tempo e nello spazio). E’ stato inoltre rilevato che “non appare necessario, per l’operatività del divieto di doppio giudizio, che anche la vittima sia la stessa, come a mero titolo esemplificativo, può accadere nell’ipotesi in cui il reo, con la propria condotta, arrechi danno ad una pluralità di persone e venga per ciò condannato” in quanto “deve ritenersi che il divieto di nuovo processo sul medesimo fatto resta fermo, quand’anche il nominativo di una delle vittime non sia stato mai menzionato nel giudizio”. E’ stato infine specificato che tale evenienza, non interferisce nemmeno “con la possibilità del danneggiato, che non abbia preso parte al processo penale, di promuovere l’azione per chiedere il risarcimento del danno dinanzi al giudice civile [46]”.

 Imigrazione clandestina

L’imputato, che ha diretto per più di un anno un campo di raccolta dove sono transitate non solo le persone offese, ma anche altre centinaia di somali (certamente più di 500) diretti in Europa, ha seguito una fase estremamente importante e delicata del loro  viaggio. Lo stesso infatti, agendo in concorso diretto con Khalifa e con diversi guardiani libici, si è occupato della gestione di questi profughi sino ed in funzione del pagamento del prezzo a cui era condizionato il loro imbarco per l’Europa. E la sua azione si era materialmente e consapevolmente coordinata con quella degli altri soggetti di un’organizzazione criminale potente ed articolata che ha gestito per anni (certamente dal 2013, quando era partita la moglie dell’imputato, al 2016), in Stati diversi, con una pluralità di mezzi materiali e di persone, i trasferimenti clandestini questi migranti, prelevandoli in Etiopia o in Sudan, portandoli in Libia e di qui, ottenuto il compenso richiesto dalle loro famiglie, creando le condizioni per il loro ingresso in Europa.

La condotta dell’imputato integra pertanto il delitto contestatogli al capo d) sia sotto il profilo oggettivo, sia sotto quello soggettivo [47].

Il reato è stato contestato all’imputato con le  aggravanti di cui alle lettere a), b), c) d) e) dei commi 3 bis e lettera b) del comma 3 ter, dell’art 12 D.Leg 286/9 che appaiono tutte integrate.

Infatti è stato provato che le persone di cui l’imputato ha concorso a procurare l’ingresso in Italia sono state esposte a pericolo per la loro vita e per la loro incolumità già nel percorso fino ai campi e poi fino aGommone che imbarca acquala costa, quindi nel campo di raccolta (per le condizioni di deprivazione in cui sono state tenute)ed infine nel corso del viaggio in mare, come dimostrato dalle diverse morti riportate dalle parti lese con riferimento a tutti questi contesti.

Nel centro di raccolta di Bani Walid, i migranti erano stati trattati in modo inumano sia per le condizioni igienico sanitarie in cui erano costretti, sia per le violenze fisiche e  psicologiche loro inflitte, sia infine per la totale assenza di cure  mediche. I profughi hanno dovuto vivere ammassati in un hangar pieni di pidocchi, sovraffollato e non areato. In 500 persone hanno potuto usufruire solo di due bagni e solo durante il giorno. Non potevano muoversi e conversare fra loro, non ricevevano  alcuna assistenza sanitaria, venivano costantemente minacciati e venivano puniti senza motivo ed anche quando le famiglie avevano pagato la cifra richiesta.

Le persone di cui si è avvalsa l’organizzazione a cui ineriva l’azione dell’imputato erano certamente più di tre ed avevano la disponibilità di molte armi (come è stato evidenziato con riguardo non solo agli spostamenti, ma anche specificamente alla costante vigilanza prestata nel campo di Bani Walid).

Le persone di cui è stato procurato illegittimamente l’ingresso in Italia sono certamente più di cinque (certamente più di 500).

Matammud, con le condotte ora all’esame, ha apportato il suo contributo ad un gruppo impegnato stabilmente in attività criminali nell’ambito di più  Stati (e  la giurisprudenza è granitica nell’affermare che l’aggravante della transnazionalità ricorre anche quando il soggetto cui è addebitata, abbia agito in un solo Stato, purchè lo stesso abbia consapevolmente contribuito con la sua azione alla realizzazione dell’attività criminosa di un gruppo organizzato che agisce in più Stati, così come è avvenuto nel caso di specie [48]).

Risulta infine provata ed integrata anche l’aggravante del fine di profitto che seppure non è stata specificamente contestata nella formulazione del capo d) dell’imputazione risulta descritta in fatto mediante il richiamo al capo a) nella definizione della condotta di Matammud. Infatti sotto questo profilo non importa che non sia stato dimostrato che l’imputato stesso abbia tratto un lucro dalla sua condotta illecita, essendo risultato in modo certo che il fine di lucro connotava l’attività dell’organizzazione con cui ha integrato la sua azione [49].

 Sequestro di persona aggravato dalla morte

Alla luce delle dichiarazioni delle parti lese risulta altresì dimostrata la penale responsabilità dell’imputato con riguardo ai delitti contestatigli al capo a) e b).

 I testi hanno infatti coerentemente descritto che per tutti i migranti approdati al campo di Bani Walid la privazione della libertà personale era totale: tutti erano costantemente sorvegliati da uomini armati ed alla notte erano tenuti chiusi in un capannone, senza possibilità di parlare fra loro, di muoversi dentro e fuori dal capannone, senza alcuna libertà di autodeterminarsi (cfr sottoparagrafo 2.3).

Erano stati più volte minacciati di morte da ISMAIL nel caso di mancato pagamento, pativano atroci violenze nei casi di ritardo delle famiglie a provvedere al versamento di quanto richiesto (sottoparagrafo 2.3.3). Non solo la prosecuzione del viaggio da Bani Walid, ma anche la loro libertà ed incolumità era stata condizionata al pagamento della somma richiesta. Per alcune delle persone offese (ed anche per altri migranti) giunte al campo di Sabrata senza aver pagato l’intero prezzo richiesto (cfr LULU e SAFIA), la privazione della libertà era proseguita anche in questo campo.

I testi hanno concordemente riferito che i profughi erano tenuti tutti nelle stesse condizioni e quello che variava era solo il tempo in cui avevano dovuto fermarsi nel campo di Bani Walid e le violenze dirette subite (che divenivano sempre più gravi se la famiglia tardava a pagare). La condizione di reclusione ed il clima di intimidazione era però uguale per tutti.

 Non vi è dubbio poi che la condotta dell’imputato e dell’organizzazione cui ineriva la sua attività era finalizzata al conseguimento di un ingiusto profitto.

Infatti anche se  l’organizzazione era creditrice nei confronti dei somali che avevano usufruito della sua attività del corrispettivo delle spese per il loro trasferimento fino all’Italia, tuttavia si trattava di un credito che non poteva essere azionato in giudizio in quanto di natura illecita [50].

La stessa entità del prezzo del viaggio non era stata concordata con le parti lese, al contrario era stata imposta dall’organizzazione che contava proprio sul fatto di avere in sua balia i migranti per richiedere ed ottenere il prezzo voluto.  Ed anche a considerare che in alcuni casi il credito dell’organizzazione potesse essere stato preventivamente pattuito, la giurisprudenza maggioritaria insegna che quando l’intimidazione finalizzata ad ottenere il pagamento travalichi in violenze e nella privazione per un tempo apprezzabile della libertà del debitore, risulta in ogni caso integrata la fattispecie del sequestro ai fini di estorsione [51].

 Nel caso in esame inoltre è risultato provato che non solo le parti lese ed altri migranti erano stati sottoposti ad incredibili violenze (cfr paragrafo 2.3.5), ma anche che la morte di alcuni dei profughi era stata cagionata dalla condotta stessa di ISMAIL.

Nella formulazione dell’imputazione a Matammud è stato contestato il reato di sequestro a scopo di estorsione aggravato ai sensi del III comma dell’art 630 cp. con riguardo ad almeno 4 persone e poi il reato di omicidio volontario aggravato per “avere in concorso con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso ed in concorso con persone non identificate, cagionato la morte di numerosi cittadini somali non identificati, sequestrati nel campo di Bani Walid, i cui familiari non avevano provveduto al pagamento della somma pattuita per il viaggio dalla Somalia, decessi avvenuti nel campo di Bani Walid ed in alcuni casi in Sabrata e lungo il tragitto tra i due campi, in conseguenza delle violenze subite in precedenza descritte”.

Peraltro, nell’ipotesi di sequestro di persona a scopo di estorsione, la morte del sequestrato, derivata in qualsiasi modo dalla condotta dei sequestratori, integra in ogni caso le aggravanti di cui all’art. 630 II e III comma cp. Pertanto il reato di omicidio volontario non può essere separatamente contestato, a prescindere dalla modalità con cui è stata provocata la morte dell’ostaggio, costituendo l’elemento costitutivo dell’ipotesi aggravata di cui al terzo comma [52]. La Corte ha ritenuto pertanto che tutte le morti dei profughi ascritte a Matammud nell’imputazione, anche quelle più direttamente ascrivibili ai suoi maltrattamenti piuttosto che alle condizioni di deprivazione che hanno caratterizzato il sequestro, configurino reiterate ipotesi p. e p. dall’art. 630 III comma cp.

*

Prima di procedere ad esaminare singolarmente le morti degli ostaggi ascrivibili direttamente all’imputato occorre rilevare che le condotte di Matammud, descritte dai testi, rivelano come la morte di 13 prigionieri allo stesso attribuita, fosse  stata prevista e voluta dal prevenuto, quanto meno a titolo di dolo eventuale.

Per quanto riguarda questa forma di dolo si osserva che la previsione delle aggravanti di cui al II e III comma dell’art 630 cp, mostra come il legislatore avesse già considerato nella formulazione dell’ipotesi incriminatrice un dato di fatto emerso dall’esperienza giudiziaria, ovvero che “il sequestro di persona a scopo di estorsione è un crimine per cui, più che per la maggioranza degli altri reati, la morte della vittima è una conseguenza non eccezionale, ma prevedibile della condotta del reo”, dal momento che la condotta integrante questo reato è costituita dalla “privazione della libertà di una persona inerme, la cui dignità e le cui condizioni di vita sono già mercificate” [53].

Inoltre, se in genere l’accertamento dell’avvenuta accettazione da parte del reo del rischio del verificarsi dell’evento illecito risulta complesso, perché non si evince in modo diretto dall’azione del soggetto, ma soprattutto in forza di una serie di fattori esterni di difficile indagine, nel caso di specie, invece, alcuni di questi fattori emergono con evidenza già dal generale comportamento di ISMAIL nei confronti dei prigionieri. Le sue ripetute condotte e le sue reiterate affermazioni/minacce, infatti  permettono di affermare, come si è già in precedenza osservato, che la morte dei migranti non gli portava alcuno svantaggio ed anzi veniva da lui utilizzata come monito e pressione sugli altri reclusi. L’abituale atteggiamento di spregio da parte dell’imputato (ed anche da parte degli altri membri dell’organizzazione) per la vita dei migranti è emerso dal racconto delle parti lese con riferimento sia ai momenti dei trasferimenti, sia alle condizioni in cui i profughi venivano tenuti nel capannone di Bani Walid. I prigionieri erano infatti costretti  in condizioni igieniche disastrose, senza potersi lavare, senza poter andare in bagno secondo il loro bisogno, senza nemmeno poter parlare fra loro, senza potersi spostare dal proprio posto o aiutare vicendevolmente, senza alcuna assistenza e cura medica.

A qualificare dal punto di vista soggettivo le condotte dell’imputato intervengono poi i racconti di diverse persone offese a proposito delle spropositate violenze a cui erano state loro stesse sottoposte, violenze e torture che dimostrano come ISMAIL avesse agito per far loro “più male possibile”, senza curarsi delle conseguenze.

A completamento di queste osservazioni si ricorda infine che in una recente sentenza (in cui era stata affermata la responsabilità a titolo di dolo eventuale dei sequestratori per la morte dell’ostaggio deceduto a seguito del loro prolungato e violento interrogatorio), si è affermato che “se alla generica prevedibilità dell’evento letale, collegato alla privazione violenta della libertà, si aggiunge un comportamento volontario tale da elevare all’ennesima potenza il pericolo del verificarsi dell’evento ed un atteggiamento di accettazione di quella probabilità, resa palese dal continuo peggiorare delle condizioni dell’ostaggio, non deceduto improvvisamente, ma dopo una lunga agonia, seguita dai prevenuti senza pensare a prestare un soccorso efficace, con abbandono del progetto, ma con l’idea di poter continuare nell’impresa, appare del tutto adeguata una valutazione dell’atteggiamento psicologico degli imputati quale connotato da dolo eventuale” (cfr Cass V sez pen, n 28016 del 27.2.13).

*

Passando ora ad esaminare più in dettaglio quanto è emerso dalle testimonianze con riguardo ai singoli episodi (cfr sottoparagrafo 2.5) si osserva che alla luce delle dichiarazioni di ABDULI e di AYOUROUSSE  puo’ addebitarsi ad ISMAIL di aver cagionato la morte di almeno 4 persone nel 2015, in modo volontario, alcune a titolo di dolo diretto, altre a titolo  di dolo eventuale.

Infatti, dalle dichiarazioni di ABDULI risulta che la morte del ragazzo di cui il teste ha parlato era stata conseguenza in parte delle percosse ricevute da ISMAIL, in parte dall’assenza di soccorsi. Soccorsi che non erano stati in alcun modo prestati nonostante il fatto che le condizioni estreme in cui versava la vittima a seguito delle ripetute punizioni fossero evidenti e ciò soprattutto a chi, come l’imputato,  le aveva provocate ed aveva il controllo assoluto del campo.

 Anche il pericolo di vita in cui versava la donna che era morta a circa un mese dal parto,  avvenuto in condizioni igieniche inadeguate e senza supporto medico, parto dal quale non si era più ripresa  (aveva continuato a sanguinare per giorni), risultava noto ad ISMAIL. Infatti non solo l’imputato non poteva ignorare che la vittima avesse partorito (visto che era stato necessario sbarazzarsi del cadavere del neonato e che i prigionieri non potevano nemmeno recarsi in bagno senza chiedere l’autorizzazione alle guardie), ma in più la donna gli aveva chiesto aiuto proprio per il fatto che stava malissimo. Ed il comportamento  tenuto da Matammud (quello di percuoterla per farla star zitta) appare chiaro segno del fatto che lo stesso aveva scelto di non aiutarla in alcun modo, accettando così in modo esplicito il rischio che dalla perdurante omissione di cure derivasse la morte della vittima.

La morte di queste 2 persone è avvenuta dopo giorni di agonia, mentre le stesse erano  prigioniere nel campo gestito da ISMAIL, che aveva in concreto potere di vita e di morte sui migranti. La loro morte è intervenuta perché nonostante l’ingravescenza del loro stato di salute l’imputato ha scelto di non farli soccorrere in alcun modo, senza cercar di alleviare le loro sofferenze, senza fornire loro alcuna cura, alcuna medicina.

Ancor più evidente appare poi il dolo omicidiario con riferimento all’episodio dei 2 ragazzi riferito da AIDOUROUSSE, dal momento che evidentemente le percosse  gravissime inferte loro da ISMAIL già nel capannone, erano proseguite poi sino alla morte, come può arguirsi dal fatto che le vittime erano state trascinate fuori dall’hangar proprio per continuare a picchiarle e che non vi erano più rientrate.

*

Per quanto riguarda l’anno 2016 devono addebitarsi ad ISMAIL le morti di altre 9 persone.

IDO ha infatti raccontato in modo preciso che un giorno ISMAIL aveva trascinato i cadaveri di 2 ragazzi nel capannone e li aveva lasciati lì come monito, proclamando di averli uccisi perché non pagavano e che questa era la sorte che sarebbe toccata a chi non avesse pagato. Nei giorni successivi, poi, le aveva detto di averli uccisi impiccandoli (appendendoli per il collo).

Pertanto è evidente che la morte di questi due ragazzi integra un omicidio doloso e con dolo diretto, in quanto la volontà  dell’imputato di non limitarsi a punire i due ragazzi, ma di ucciderli, risulta in modo inequivocabile dal commento proferito dallo stesso prima  davanti a tutti e poi in presenza di IDO allorquando aveva confessato direttamente  come li aveva uccisi.

Anche le violenze che ABDULQANI, NUUR e SHAFICI hanno visto essere perpetrate da ISMAIL ai danni di altri 2 ragazzi (picchiati prima dall’imputato con una spranga di ferro fino a che avevano iniziato a rantolare,  e poi ancora fuori dal capannone, finchè erano cessate le loro urla), dimostrano che, a prescindere da chi avesse concluso quel giorno l’azione punitiva di ISMAIL,  anche la morte di questi due migranti era stata volontariamente causata dall’imputato con un’azione lesiva tale da rendere prevedibile e voluto il decesso delle vittime.

Per quanto riguarda poi i 3 ragazzi morti di cui ha parlato specificamente SAFIA si nota che la stessa ha detto di aver visto ISMAIL picchiare selvaggiamente solo uno di questi, ma ha  anche riferito che gli altri due,  quando erano tornati  nel capannone nelle occasioni in cui erano stati portati fuori dall’Hangar  da ISMAIL o su suo ordine (come si desume dal fatto che non si poteva infatti uscirne altrimenti) stavano come la prima vittima, ovvero malissimo.

E la sussistenza per tutti e tre questi omicidi del dolo diretto si evince dal fatto che, a detta della teste,  ISMAIL nel riferirsi alla loro morte aveva affermato  espressamente che quella era la fine che avrebbe fatto chi non avesse pagato, dimostrando così in modo sicuro che dette morti erano state intenzionali.

Ed anche la morte della donna, di UBAH, di cui ha parlato NIMCAM deve attribuirsi a titolo di dolo all’imputato. Il cadavere della donna presentava infatti evidenti segni di percosse gravi, aveva sangue al volto e sulla testa, risultava quindi essere stata attinta da più colpi in una sede vitale del corpo. Pertanto si può affermare che l’imputato, che l’aveva prelevata dal campo la sera prima, per riservarle, come può dedursi dal complesso delle testimonianze, il trattamento violento subito da varie altre donne (come IDO e AYAN e varie altre), non poteva non aver messo in conto di poter  cagionare con le sue percosse la morte della vittima, così come aveva fatto senza preoccupazione con altri migranti.

Infine deve addebitarsi a MATAMMUD la morte di AOULE in quanto anche ad ipotizzarsi uno stato di pregressa o concomitante malattia della vittima, certamente le percosse ripetutamente subite ad opera dell’imputato (le ripetute frustate, le scosse elettriche ai testicoli), non possono che aver peggiorato drammaticamente ed irreversibilmente le sue condizioni. I testi hanno affermato che il ragazzo a Bani Walid veniva riportato di peso nel capannone in stato di incoscienza e che a Sabrata aveva continuato a stare malissimo. La ripetizione delle torture (OMAR ha riferito che il ragazzo veniva SEMPRE picchiato), la scelta delle stesse,  l’assenza di cure per tutto il tempo in cui era stato a Bani Walid nonostante la sua prolungata agonia, portano a ritenere che anche se a Sabrata gli erano state praticate delle flebo, questo non valga ad escludere che in precedenza ISMAIL avesse previsto ed accettato che dalle sue condotte potesse derivare la morte del vittima, morte che pertanto deve essergli ascritta a titolo di dolo eventuale.

Tutte queste 13 morti debbono dunque addebitarsi direttamente all’imputato a titolo di dolo.

Dalle testimonianze non sono invece emersi elementi sufficienti per ritenere l’imputato responsabile di aver cagionato volontariamente, con le violenze dallo stesso direttamente esercitate descritte al capo A, la morte di altre persone. 

Infatti, per quanto riguarda le morti intervenute presso il campo di Bani Walid, appare troppo generico il racconto di ABDULI a proposito della trentina di morti intervenute nel corso della sua permanenza nel campo nel 2015. Il teste ha affermato di averne solo sentito riferire, ma non ha saputo indicare con precisione la fonte della sua conoscenza, nè la specifica condotta dell’imputato che avrebbe portato al loro decesso, né il numero preciso dei morti (nel cui novero potrebbero essere inclusi anche quelli di cui ha specificatamente parlato). La sua testimonianza pertanto può ritenersi significativa solo nella misura in cui concorre a delineare la situazione di violenza e di paura in cui versavano i prigionieri e lo spregio per la loro incolumità mostrato dall’imputato.

Per quanto riguarda invece le morti intervenute durante i trasferimenti dei profughi, si osserva che nell’imputazione non risultano essere state contestate all’imputato le morti cagionate nel corso del viaggio in mare e del trasporto via terra fino al campo di Bani Walid, ma solo quelle intervenute nel tragitto tra questo e Sabrata e solo quelle derivate dalle violenze da lui direttamente perpetrate.  E nessuno dei testi ha riferito che nel corso di questo tragitto fossero morti dei migranti per questa ragione.  

Considerato tutto quanto sopra, pertanto, l’imputato deve essere ritenuto colpevole del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione continuato di centinaia di migranti (almeno 500) che ISMAIL ha avuto sotto il suo controllo nel campo di Bani Walid dal gennaio alla fine di maggio 2016 e dei migranti che ha continuato a tenere prigionieri a  Sabrata da fine maggio all’agosto 2018 (cfr LULU e SAFIA).

La penale responsabilità dell’imputato risulta inoltre provata sotto il profilo oggettivo e soggettivo con riguardo all’ipotesi aggravata di cui all’art 630 III comma cpp  con riguardo a 13 prigionieri di cui ha cagionato volontariamente la morte.

Tutti i suddetti fatti di reato appaiono altresì aggravati in relazione agli art 61 n1 e 4 cp ed all’art 4 L146/06.

Infatti da tutte le testimonianze risulta che ISMAIL ha sottoposto i suoi prigionieri ad un regime inumano ed a violenze gravissime (minacciando tutti ripetutamente di morte, picchiando e torturando diversi uomini, picchiando e violentando diverse donne) per motivi certamente abietti, quale lo scopo di lucrare sulla condizione di disperazione che li aveva spinti al viaggio e li aveva posti in balia sua e della sua organizzazione.

La descrizione dei comportamenti dell’imputato ha inoltre fatto emergere come le sue condotte fossero caratterizzate da crudeltà. Gravissime sono state le vessazioni a cui ingiustificatamente sottoponeva  tutti i prigionieri che ha picchiato spesso senza motivo, a volte così violentemente, torturandoli con pratiche  così  dolorose e debilitanti da ferirli nel corpo e nella mente, arrivando a procurar loro fratture e lesioni e finanche la morte. L’imputato ha mostrato  crudeltà  altresì nei confronti delle donne prigioniere, che non solo violentava, ma minacciava, picchiava ed umiliava in ogni modo.

Sussiste infine anche con riguardo a tutti questi fatti delittuosi l’aggravante della transnazionalità per i motivi già esposti in precedenza..

Le violenze sessuali

Il reato di violenza sessuale continuato è stato contestato a MATAMMUD al capo C) [54] come commesso ai danni di alcune decine di ragazze somale sequestrate all’interno del campo di Bani Walid e tra queste IDO e AYAN, minorenni all’epoca dei fatti. Violenze sessuali perpetrate con frequenza anche quotidiana, abusando delle loro condizioni di inferiorità fisica e mediante minacce di morte e violenza.

Sono state inoltre contestate le aggravanti di aver commesso il fatto su persone sottoposte a limitazione della loro libertà personale [55], nei confronti di persone che non avevano compiuto gli anni 18, con gravi violenze da cui erano derivate, in ragione della loro età ed a causa della reiterazione delle condotte, un pregiudizio grave.

Gli è stata imputata infine l’aggravante di aver commesso il fatto facendo parte di un’associazione a delinquere ed allo scopo di agevolarne l’attività.

*

In forza delle dichiarazioni dei testi è emerso che ISMAIL ha violentato certamente una decina di donne specificamente individuate (le 3 ragazze indicate da Abduli, la ragazza di nome UBAH, indicata da Nimcam, MUNA’ ed altre ragazze –almeno due, visto il plurale- che lo avevano raccontato a Dahir; le ragazze che lo avevano raccontato a Safia; SUAD, indicata da Omar). E le violenze esercitate da Matammud ai danni di molte altre donne a cui hanno accennato i testi, seppur non potendo essere più specifici, concorrono ad aggravare la considerazione degli illeciti dell’imputato che hanno potuto essere meglio ricostruiti.

Non si tratta neanche in questo caso di testimonianze de relato in quanto i testi hanno riferito di aver visto l’imputato portar fuori dal capannone le ragazze di cui hanno poi raccolto il racconto delle violenze sessuali subite.

Nè rileva il fatto che alcuni testimoni abbiano riferito che c’erano delle ragazze che non opponevano resistenza. Viste le condizioni in cui le stesse si trovavano (prigioniere, costantemente sotto minaccia, intimidite anche per la violenza che vedevano esercitare nei confronti degli altri prigionieri), l’assenza di un’esplicita manifestazione di dissenso da parte delle donne, di fronte all’imperativo di ISMAIL di seguirlo fuori dal capannone, non può giustificare la condotta dell’imputato. Tra l’altro i testi hanno affermato di aver sentito spesso le urla delle ragazze che venivano condotte fuori dal capannone da MATAMMUD e poi di averle viste rientrare piangenti o meste o doloranti, cosicchè è difficile ipotizzare che le stesse avessero prima volontariamente acconsentito alla scelta dell’imputato.

Particolarmente grave risulta poi il comportamento dell’imputato nei confronti della piccola Ido e di Ayan le quali avevano riferito di essersi sentite totalmente in balia di Ismail, che non solo le aveva fatte soggiacere ai suoi voleri per più notti, incurante persino del dolore fisico loro provocato, ma in più le picchiava (con calci, con una cinghia e con bastoni), le minacciava, a volte di morte, a volte  puntando loro un fucile in testa, a volte di farle violentare anche dai guardiani libici (che le ragazze sapevano eseguire tutto quello che l’imputato ordinava loro).

La descrizione del primo rapporto sessuale avuto da queste ragazze minorenni con ISMAIL risulta raccapricciante per la violenza e la crudeltà dell’imputato e per il dolore e la paura provocate nelle vittime.

*

Gli atti di violenza sessuale compiuti da ISMAIL ai danni delle prigioniere del campo sono aggravati per il fatto che le vittime erano in condizioni di limitazione della loro libertà (erano di fatto sue prigioniere) e per il fatto che l’imputato risulta aver commesso i delitti in quanto partecipe di un’associazione criminale ed al fine di agevolarne l’attività. Sotto quest’ultimo profilo basta rilevare che è emerso in modo palese che l’azione di ISMAIL nei confronti delle prigioniere aveva anche lo scopo (certamente non l’unico) di sottomettere del tutto le parti lese e di esercitare maggiori pressioni perché fosse pagato quanto da lui richiesto per conto dell’organizzazione per cui operava.

*

Per quanto riguarda infine  gli atti di violenza ai danni di IDO ed AYAN ricorrono anche tutte le altre aggravanti in contestazione. Le due ragazze erano minori e le gravi e reiterate violenze inflitte loro (la prima volta IDO era svenuta per il dolore, AYAN era stata ripetutamente violentata per tre giorni, erano state sempre picchiate o minacciate per vincere le loro resistenze e trattate con il massimo disprezzo) non possono che aver procurato alle vittime un pregiudizio grave. E detta considerazione trova conferma nel certificato medico (le ragazze a distanza di 8 mesi dall’ultima violenza, oltre a mostrare varie cicatrici in più parti del corpo, riferivano di soffrire ancora di pollachiuria), nello spavento manifestato quando avevano visto ISMAIL a Milano, nel modo estremamente sofferto con cui hanno raccontato questa esperienza.

7 Trattamento sanzionatorio

[…]

8   LE RICHIESTE delle PARTI CIVILI 

[…]

P.Q.M.

Visti gli artt. 533, 535 c.p.p. e 72 cp,

dichiara

Matammud Osman colpevole dei reati ascrittigli ai capi A, C e D, ritenuti gli omicidi  di cui al capo B assorbiti nel delitto di cui agli artt. 81, 110, 630 co. 1 e 3, 61 nn. 1 e 4  cp, 4 Legge n. 148/2006 così riqualificato il reato di cui al capo A), e unificati tutti i delitti dal vincolo della continuazione ,lo

condanna

alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno per anni tre,

oltre al pagamento delle spese processuali e di mantenimento in carcere.

Visti gli artt. 29 e 32 c.p.,

dichiara

Matammud Osman interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e in stato di interdizione legale durante l’esecuzione della pena.

Visto l’art. 235 c.p.,

dispone

che Matammud Osman, a pena espiata, sia espulso dal territorio dello Stato.

Visto l’art 36 cp

Ordina

La pubblicazione della presente sentenza, a spese del condannato, mediante affissione nel Comune di Milano  e mediante la pubblicazione per quindici giorni nel sito Internet del Ministero della Giustizia,

visto l’art. 262 cpp

dispone

che dopo il passaggio in giudicato della sentenza le cose sequestrate all’imputato gli siano restituite,

visti gli artt 538 e ss cpp

condanna

l’imputato al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili da liquidarsi in sede civile, nonché al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva che liquida in euro 10.000 in favore dell’Associazione ASGI, in euro 50.000 in favore di Mohamed Abdi Homze ed in euro 100.000 per ciascuna delle altre parti civili Mohamood Ayan, Hassan Iido, Fayasal Caabi Shafici, Osman Abdulqani, Idris Amin, Nuur Ali Oumar, Mumin Ahmed Nimcan, Ahmed Yusuf Mahamad, Rahman Ahmad Abdi;

visto l’art 541 cpp

condanna

l’imputato alla rifusione in favore delle parti civili costituite delle spese di difesa per il presente grado di giudizio che liquida:

per la parte civile ASGI in euro 4.680 oltre al 15% per spese generali, IVA e CPA,

per le parti civili ammesse al Patrocinio a spese dello Stato, in complessivi euro 5.616 per la difesa di Mohamood AYAN e Hassan Ido, in complessivi euro 5.616 per la difesa di Mumin Ahmed Nimcam e Ahmed Yusuf Mahamad, in complessivi euro 7.616  per le restanti parti civili ,  per tutte oltre al 15 % per spese generali, IVA e CPA come per legge, somme da corrispondere in favore dello Stato anticipatario.

Visto l’art. 544, comma 3° c.p.p.,

fissa

il termine di 60 giorni per il deposito della motivazione.

Visto l’art. 304, lett. c) c.p.p.,

sospende

per 60 giorni il termine di durata della custodia cautelare.

Milano, 10.10.17                                                    il Presidente

_________________

[1] Le istanze ed il provvedimento di rigetto del GIP sono state acquisite all’udienza del 6.7.17

[2] Infatti in dibattimento la istanza di rito abbreviato condizionato veniva presentata senza prevedere più l’audizione di Ubax ed Aragsan, ma con la richiesta in aggiunta dell’esame del DNA della figlia della moglie dell’imputato.

[3] filmato acquisito all’udienza del 6.7.17 con estrapolazione di fotogrammi ed annotazione di PG (in cui si descrivono le immagini del filmato) acquisiti all’udienza del 15.9.

[4] album c.d.  e cd acquisiti all’udienza del 12.7

[5] schede prodotte all’ udienza del 11.7.

[6] Cfr verb trascr ud 11.7.17 p 10 e verbale di sequestro acquisito alla stessa udienza

[7] Cfr informativa della Polizia locale depositata in Procura il 23.12.16 acquisita all’udienza del 15.9.17.

[8] Cfr annotazione depositata all’udienza del 11.7.17

[9] Cfr supplemento di relazione (prodotta all’udienza del 15.9.17) sulle indagini effettuate in forza dell’user name fornito nel corso del suo esame dall’imputato in cui si dava atto della impossibilità di risalire al suo profilo o account di facebook.

[10] Cfr da trascrizioni da p 22 udienza 11.7.17

[11] ABDULLAI si era presentato spontaneamente presso la Polizia il giorno successivo al fermo dell’imputato per rilasciare la propria dichiarazione, ma a causa di problemi tecnici era stato sentito solo brevemente con l’invito a presentarsi successivamente a precisare le sue dichiarazioni. Nonostante avesse accettato di ritornare il giorno seguente, ABDULLAI non si era più reso reperibile. La Polizia locale aveva tentato infatti di rintracciarlo recandosi più volte presso il centro in cui era stato collocato, ma lui già dalla mattina si era allontanato, e non vi aveva più fatto ritorno, né aveva comunicato il suo nuovo indirizzo.

[12] OMAR riferiva di essere venuto a conoscenza del fermo perché era circolato su Facebook e Youtube un video in proposito.

[13] L’elenco dei nominativi sbarcati il 29.08 è stato acquisito e riguarda tantissime persone (circa 500 persone avevano viaggiato insieme a Matammud ed in totale erano sbarcate quasi 900 persone di varie nazionalità).

[14] Cfr Cass. pen sez I, n 3435 del 16.11.16 che, richiamandosi alla pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione n 40517 del 28.4.16, ha affermato che laddove non si tratti di migranti entrati illegalmente in Italia per fatto proprio, ma di soggetti soccorsi in mare e che hanno titolo per rimanere in Italia per motivi umanitari, gli stessi debbono considerarsi testi e non imputati di reato connesso.

Si nota tra l’altro che la presentazione di una domanda di protezione internazionale sospende il procedimento per la violazione dell’art 10 bis DL n286/98 e che l’accoglimento  di tale domanda determina la pronuncia di non luogo a provvedere nei riguardi del migrante.

Inoltre occorre osservare che anche nel caso in cui il migrante non abbia titolo per ottenere il permesso di soggiorno, lo stesso non può considerarsi comunque un correo di coloro che ne abbiano ai fini di lucro procurato l’ingresso clandestino. La condotta dei questi ultimi è infatti sanzionata ai sensi dell’art 12 DL n 286/98,  mentre quella dei migranti comporta solo una contravvenzione, trattandosi all’evidenza “di condotte, anche sul piano materiale, non omogenee e non comparabili” (cfr altresì Cass I sez pen n 2595 del 1.10.15).

[15] SAFIA ha riferito che nonostante fosse stata contattata da ABIDARAHMAN per sapere se voleva denunciare ISMAIL, gli aveva detto di no perché “non voleva avere casini”.

[16] Le dichiarazioni della teste trovano riscontro nei contatti telefonici con Safici quel giorno.

[17] Si segnala che Abidaraham, così come Nimcam e Yusuf, come Ido ed Ayan, erano tutti minorenni al momento dei fatti in esame

[18] Al Shabaab è un gruppo militare presente dal 2006 in Somalia (ovvero da dopo la caduta del regime di Siad Barre) che propugna il fondamentalismo islamico sunnita, ideologia affiliata ad AL Qaida.

[19] Più in particolare, SAFIA riferiva che:

Era rimasta presso il campo di SAAD per circa un anno. Lì aveva visto picchiare i migranti con bastoni e cavi elettrici per ottenere  il pagamento del prezzo del viaggio. Era stata picchiata anche lei ed era stata violentata da SAAD.

Una notte che Saad era ubriaco ed i suoi uomini erano andati nel deserto a prendere “un altro carico di migranti”, era fuggita insieme ad altri duecento prigionieri. Si erano divisi in piccoli gruppi. Qualche tempo dopo lei ed un altro somalo erano giunti presso una costruzione cintata da mura dove avevano visto dei somali. Mentre avevano iniziato a parlare, erano arrivati ISMAIL e ABDIRAHMAN Borame, che avevano fatto rientrare gli altri uomini e  l’avevano portata, insieme al ragazzo somalo fuggito con lei dal campo di SAAD, davanti ad ALI BUUR/KHALIFA. Gli avevano raccontato la loro storia ed ALI BUUR aveva detto che se avessero pagato 7500 dollari si sarebbero potuti imbarcare. Poi Ismail li aveva portati all’interno del campo e da lì era iniziato un altro periodo di prigionia.

[20] Si ricorda che ABDULI è stato rintracciato a seguito delle ricerche della Polizia e non aveva avuto alcun contatto, nemmeno in Libia, con le altre parti lese. Infatti era stato nel campo di ISMAIL prima di tutte gli altri testi, dal gennaio 2015 a novembre 2015.

[21] Solo per evitare possibili fraintendimenti si nota che l’indicazione della denominazione del campo in cui avevano incontrato ISMAIL da parte dei testi, a volte è dipesa dall’associazione ad un luogo, altre ad un nome, altre ad un nome ed un numero (Musa, Rayane, Kalifa 1/2/3), variando a seconda delle diverse tappe fatte da ciascuno. E’ risultato comunque in modo inequivoco che il primo campo al quale hanno associato la presenza dell’imputato era stato quello di Bani Walid che hanno coerentemente descritto nella sua conformazione e collocazione (vicino a dei monti al confine del deserto della Libia) ed il secondo campo era quello di Sabrata, che si trovava sulla costa a circa due giorni di viaggio dal primo, dove ISMAIL si era trasferito da fine maggio 2016.
[22] Anche ABUKAR ALI, teste indicata dalla difesa, nonché moglie dell’imputato, ha riferito di essere partita dalla Somalia, senza aver previamente saputo quanto avrebbe dovuto pagare

[23] Cfr paragrafo 2.3.2 inerente il ruolo di ISMAIL e KALIFA.

[24] Alcuni testi (per es. AYDOUROUSSE) hanno parlato espressamente di tre campi gestiti da Kalifa, chiamandoli Kalifa 1,2 e 3 .

[25] E’ l’unica teste (insieme ad OMAR) a riferire della distribuzione di medicine, ma come si vede dal suo racconto (cfr paragrafo: Il Viaggio), la stessa era stata solo a Sabrata e forse per questo o per la sua età avanzata, almeno per gli standard somali, è anche l’unica a dire di non aver subito violenze da parte di ISMAIL ed anzi che questi si era confidato con lei.

[26] NUUR nel corso dell’incidente probatorio non si soffermava a descrivere le percosse ricevute (cfr IP pag 88/89) ma nel corso dell’esame del consulente del PM dottssa Cattaneo (cfr relazione p 15) si soffermava di più sull’argomento e riferiva di essere stato colpito violentemente con bastoni, tubi di ferro, calci, pugni e schiaffi, nonché di essere stato colpito con calci sferrati all’addome ed ai testicoli, mostrando ancora dolorabilità alla palpazione in tali regioni del corpo, così che il suo racconto, più dettagliato in tale sede, veniva giudicato “coerente” dal medico legale.

[27] Dal fascicolo foto lesioni (prodotto il 6.7.17) risultano foto di cicatrici relative a MUNIN alla faccia ed alle gambe, ad AYDORUSSE alla faccia, coscia destra e sinistra, schiena altezza collo, spalla sinistra, zona lombare e pettorale destro. Altre foto delle lesioni riportate dalle parti lese sono allegate al verbale della loro audizione presso la Polizia (cfr per esempio quello di SAFIA)

[28] Aveva proceduto dapprima a raccoglie il racconto delle parti lese sugli eventi lesivi, poi a verificar i segni rimasti sul loro corpo, passando poi a classificare gli esiti cicatriziali come: incoerente/coerente (a seconda che la genesi della lesione fosse o meno  diversa da quella descritta), altamente coerente (se riscontrava un alta probabilità che la causa della lesione fosse quella indicata), tipico diagnostico (laddove il segno lesivo poteva aver avuto solo la genesi descritta).

[29] Cfr nota 19 sottoparagrafo 2.2.4

[30] Omar riferiva che nel campo di Ribayan dove era stato prima di arrivare a quello di ISMAIL, aveva visto che i prigionieri venivano picchiati con bastoni di ferro e cavi elettrici.

[31] Cfr sottoparagrafo 2.2.6

[32]          In sede di riconoscimento fotografico, molti testimoni, quando era stata  loro mostrata la foto di IDO e AYAN, avevano riferito che le stesse, e soprattutto la prima, erano le ragazze che erano più frequentemente portate fuori da Ismail ed hanno detto che questa era la sorte che toccava pure ad altre prigioniere. E questo costituisce un’ ulteriore riprova della veridicità del racconto di IDO ed AYAN, che si è posto in modo non eccentrico ma del tutto coerente rispetto alla descrizione del  comportamento violento e prevaricatore dell’imputato fatta da tutti i testi.

[33] Nei certificati del Servizio Violenze sessuali dell’Ospedale Mangiagalli si legge:

AYAN nata il 1.1.98

Riferisce che : in occasione della prima violenza ha avuto dolore violentissimo ed emorragia genitale (ci sono volute ore perché il violentatore riuscisse a penetrarla) ultimo episodio di violenza aprile 2016.

Incontinenza urinaria.

Frustate su gambe e braccia con tubi di gomma e cinture. Tenuta per lunghi periodi con mani e piedi legati.

Esame obiettivo varie cicatrici addominali riferite a pratiche mediche in età infantile.

Altre cicatrici al petto, alla nuca, all’avambraccio, alle mani, alle falangi dei piedi.

L’esame ginecologico ha dato riscontro agli esiti della riferita infibulazione e della  intervenuta penetrazione.

IDO nata il 1.1.99

Prima penetrazione per tre giorni (aveva al massimo 17 anni) preceduta da percosse e violenze fisiche, frustata con tubi di plastica e cinture su tutto il corpo , prevalentemente braccia e gambe, per penetrarla usata o una lametta o un coltello.

Intenso dolore e perso i sensi. Sanguinato per numerosi giorni.

Mostra numerose cicatrici su tutto il corpo (ha indicato che quelle in fronte e sul gomito destro risalenti ad incidente nell’infanzia). Sulle braccia aveva cicatrici di lunghezza media di circa 5 cm, aventi consimile decorso trasversale). Simili erano quelle sulle gambe. Altre cicatrici sulle mani.

Esiti cicatriziali derivati da infibulazione e da penetrazione.

[35] Nel corso dell’interrogatorio del 19.1.17, il cui verbale è stato acquisito insieme a quello reso in sede di convalida sull’accordo delle parti, l’imputato aveva detto che il padre era stato ucciso nel 2013.

[36] Il 19.1.17 l’imputato aveva riferito che la moglie aveva mandato 700 euro a sua madre e che quest’ultima li aveva mandati in Sudan ad AHMED CALOW e non ha parlato di questo bonifico.

[37] Nell’interrogatorio sopra citato l’imputato aveva detto che appena scarcerato in Sudan gli avevano detto che il prezzo del viaggio era di 7000 dollari.

[38] A parte l’evidente assurdità di questa affermazione, si nota che nei precedenti interrogatori l’imputato aveva sostenuto che Khalifa era libico e che tutti i capi del campo erano libici.

[39] Nel corso dell’interrogatorio di convalida l’imputato aveva affermato di non conoscere nessuna delle persone che lo avevano fermato a Milano, tranne ABDULLAI.  Con quest’ultimo aveva avuto un dissidio in Libia, per via del cibo. Avevano cominciato a discutere fino a picchiarsi ed a quel punto erano intervenuti i libici che li avevano picchiati entrambi. Nel successivo interrogatorio precisava solo che a suo avviso Abdullai ed i ragazzi che erano con lui lo avevano accusato in conseguenza a questo dissidio.

In dibattimento precisava che a Milano, ABDULLAI, non appena lo aveva visto, lo aveva minacciato dicendo che lo avrebbe denunciato e fatto arrestare perché era colpa sua se, al campo, in Libia, era stato picchiato dai libici. Dopo un po’ si era aggiunto anche SHAFICI, che l’imputato sosteneva non aver mai visto prima, che lo aveva trattenuto per un braccio  consentendo ad ABDULLAI di sferrargli un pugno. Per la confusione che si era creata erano piano piano sopraggiunte anche altre persone fino all’arrivo della Polizia. Non aveva raccontato in precedenza del contrasto con ABDULLAI e della sua amicizia con IDO ed AYAN perché inizialmente aveva sottovalutato le accuse che gli erano state rivolte, ritenendo gli fosse contestato solo il reato di immigrazione clandestina.

Durante l’aggressione subita a Milano, SUAD, una sua parente per parte di madre, ed un altro ragazzo, erano intervenuti a difenderlo.

[40] L’imputato ha sostenuto per esempio che NUUR era stato influenzato da IDO e che comunque aveva escluso di aver sentito parlare di una stanza delle torture contraddicendo così gli altri testi. Ha continuato a sostenere di non aver visto SHAFICI in Libia. Ma il fatto che questo teste sia intervenuto a fermare l’imputato e abbia fin da subito reso dichiarazioni coerenti con tutti gli altri testi, smentisce le obiezioni dell’imputato che ben potrebbe non averne memorizzato l’aspetto visto l’elevato numero di profughi passati per il suo campo.

Ha affermato che ABDIRAMAN aveva detto che era responsabile del campo di Sabrata mentre gli altri lo associavano a Bani Walid, che né YUSUF, né NIMCAM lo avevano denunciato al momento dello sbarco e che si era sentito con quest’ultimo in quanto avevano condiviso la stessa esperienza.

Ha contestato le dichiarazioni di ABDULI e di sua moglie con riguardo al periodo da lui trascorso in Libia, sostenendo che lo stesso Nimcam che aveva riferito di essere arrivato prima di lui (in realtà il teste ha riferito solo di aver visto l’imputato il mattino dopo il suo arrivo, cfr p 7 IP).

[41] Le osservazioni della prof. Ismail trovano riscontro nella illustrazione che le parti lese hanno fatto dei motivi che le avevano indotte a lasciare la Somalia (cfr paragrafo 2.2.1).

[42] Nella relazione è stato inserito uno specchietto con i gruppi agnatizi principali ed i sottoclan che permette di meglio comprendere quanto esposto in udienza.

[43] Cfr  ABDULLAI (sit acquisite all’ud. 11.07) e Shafici che ha riferito di aver saputo che ISMAIL era arrivato a Milano perché avrebbe dovuto lavorare con Abdi Salad Ali Turiared aiutandolo a mandare i migranti fuori dall’Italia. Aveva inoltre saputo di un litigio fra Khalifa ed ISMAIL in Libia per cui quest’ultimo non poteva più restare lì.

[44] Cfr IDO.

[45] Le persone offese non sono identificabili non solo quando la norma mira a tutelare un interesse pubblico, ma altresì in molti dei reati di pericolo. Inoltre il nostro ordinamento conosce già delitti di evento con numerose vittime, non sempre determinate od identificate: si pensi ad esempio ad i crimini contro l’umanità previsti dall’art 7 dello Statuto di Roma della Corte penale istituzionale (ratificato in Italia con legge n 232/1999, anche se ancora privo di una normativa interna di adeguamento). Tra le varie ipotesi contemplate da tale norma ve ne sono alcune con vittime talora singolarmente indeterminabili: ad esempio lo “sterminio” (lett b), “l’imprigionamento o altre gravi forme di privazione della libertà personale in violazione di norme fondamentali di diritto internazionale” (lett e), “il trasferimento forzato della popolazione” (lett d), la “sparizione forzata delle persone” (lett i), la “persecuzione contro un gruppo o una collettività per ragioni di ordine politico, razziale, nazionale, etnico, culturale, religiose o di genere sessuale” (lett h).

[46] La sentenza penale di condanna ai sensi dell’art 651 cpp ha efficacia quanto all’accertamento della sussistenza del fatto (inteso in senso naturalistico), alla sua illiceità ed alla responsabilità dell’imputato. E da tali dati, se si tratta di reato di danno, si provvederà in sede civile all’accertamento del soggetto o dei soggetti che l’abbiano subito ( Cass sez Unite civili, n 4549 del 25.2.10).

[47] Si nota per inciso che questo delitto non può ritenersi assorbito nel reato di sequestro di persona aggravato contestato al capo a). Infatti il meccanismo dell’assorbimento, cui rimanda l’inciso (salvo che il fatto costituisca più grave reato), presuppone che il reato più grave sia posto a tutela del medesimo interesse protetto dal reato meno grave da assorbire (Cass pen sez 3, n 5561 del 8.1.15). La clausola di riserva prevista dall’art 12 D.Leg n 286/98, si riferisce quindi solo ai reati che ledono lo stesso bene giuridico. E la norma in esame sanziona gli atti preparatori finalizzati a realizzare le condizioni per il potenziale ingresso illegale di uno straniero nel territorio di un altro Stato, in spregio alle previsioni di legge. Si tratta di un reato di pericolo a consumazione anticipata previsto a presidio dell’interesse dello Stato alla sua sicurezza interna. E’ un reato contro l’ordine pubblico, mentre il reato di cui all’art 630 III comma cp tutela il bene della libertà personale e del patrimonio (e della vita nell’ipotesi aggravata).

[48] Cfr Cass pen sez 5, n 7641 del 17.11.16  e Cass sez Unite  n 18374 del 31.1.13 sul fatto che l’aggravante possa applicarsi pure ai reati fine consumati dai sodali di un’associazione per delinquere anche in caso di immedesimazione tra tale associazione ed il gruppo criminale organizzato transnazionale pure quando l’azione del singolo o del suo gruppo sia svolta in un solo ambito nazionale.

[49] Questo principio è stato affermato più volte con riferimento ad altri reati, tra cui anche per la responsabilità a titolo di concorso per il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione (cfr Cass sez V pen, n 8352 del 13.1.16

[50] Cfr Cass sez I pen n 17728 del 1.4.10

[51] Cfr Cass sez II pen, n 20032 del 5.5.15

[52] Si osserva innanzitutto che non sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza se , a fronte di separata contestazione di sequestro di persona a scopo di estorsione e d’omicidio del sequestrato ad opera dei sequestratori, la condanna intervenga per il delitto di sequestro di persona aggravato a norma dell’art. 630 III comma cp, secondo una corretta applicazione dell’art. 84 cp (cfr Cass sez n 13544 del 22.1.09).

E da tempo l’ipotesi prevista dall’art 630, comma III, cp è inquadrata nella figura del reato complesso (sez Un n 25 del 13.10.84, Cass, sez I 2437 del 6.11.84, Cass sez II, n 9084 del 5.4.90) in cui l’omicidio volontario costituisce una circostanza aggravante del reato base e da luogo alla disciplina prevista dall’art 84 cp. Né tale conclusione può ritenersi limitata alle sole ipotesi in cui la morte del sequestrato avvenga in conseguenza del sequestro stesso della persona, senza un’attività ultronea rispetto a quella di privare della libertà di movimento la vittima. Nella formulazione del II comma dell’art 630 cp infatti il legislatore ha ricompreso esplicitamente la morte “comunque” derivata dell’ostaggio e la differenza tra questa e la fattispecie del successivo comma sta solo nell’elemento soggettivo: la morte dell’ostaggio configura l’ipotesi meno grave “purchè non -sia- voluta dal reo”. Nel III comma inoltre non è nemmeno  ripetuta la formula “se dal sequestro deriva comunque la morte”, ma è prevista la sanzione dell’ergastolo alla sola condizione che sia il colpevole (del sequestro) che “cagiona la morte del sequestrato”.

[53] Cfr Cass sez II, n 4768 del 8.3.89, sez II, n 9594 del 21.5.85

[54] Si tratta di reati procedibili di ufficio in quanto connessi con quello di sequestro di persona a scopo di estorsione contestato al capo a).

[55] L’aggravante ricorre anche nelle ipotesi in cui lo stato del soggetto passivo non dipenda da un potere pubblicistico, ma abbia natura illecita, come nel caso di sequestro di persona (cfr Cass n49586/09).

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