QUANTO COSTERÀ AI BRITANNICI L’USCITA DALLA UE

Uno studio quantifica nel 2,8% del consumo reale la perdita che subirebbe l’UK con una Hard Brexit; 1,8 con una Soft Brexit, che collocasse l’UK nella stessa posizione oggi occupata dalla Norvegia: perdite molto maggiori di quelle subite dai partner commerciali  del Regno Unito

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Articolo di Andrea Ichino e Tommaso Monacelli, pubblicato sul
Corriere Economia il 5 giugno 2017 – In argomento v. anche I primi effetti della Brexit saranno l’antidoto migliore contro il vento no-global; inoltre E se provassimo a non chiamarli populisti?   .
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BrexitIl Regno Unito non è ancora precipitato nella crisi economica che molti, soprattutto economisti, avevano previsto all’indomani dei sorprendenti risultati del referendum sulla Brexit, e questo fatto potrebbe giocare un ruolo rilevante nelle prossime elezioni parlamentari dell’8 giugno. Avrebbero nuovamente sbagliato le loro previsioni i profeti di sventura? Si potrebbe rispondere che i dati congiunturali più recenti cominciano a mostrare segni negativi per il Regno Unito; oppure che la Brexit, in effetti, non è ancora avvenuta, perché tutto dipenderà dall’esito dei negoziati che il governo britannico si appresta a intavolare con l’Unione Europea. Ma c’è di più. È sbagliato valutare i costi o i benefici di un evento di questa portata in base alle reazioni, spesso emotive, dei mercati finanziari, o guardando alla dinamica del Pil nel breve periodo. I costi della Brexit, per il Regno Unito, si manifesteranno solo nel medio-lungo periodo.

I costi della Brexit

Brexit significa in primo luogo maggiori barriere al commercio internazionale, tariffarie e non, con conseguenze negative che si moltiplicano nel tempo attraverso il freno all’innovazione e al trasferimento di tecnologia tra i Paesi.  La riduzione di produttività dei fattori si manifesterà quindi lentamente. Inoltre, con la globalizzazione, la produzione dei beni si è geograficamente disintegrata: le componenti di un Ipad o di un Boeing sono prodotte in Paesi diversi e poi assemblate nel bene finale, con una operazione ad alto valore aggiunto. Brexit di fatto è un trauma che spezza la catena verticale di produzione del valore che lega il Regno Unito alla UE, con conseguenze non evidenti immediatamente.

Quantificare questi costi è quindi un esercizio difficile, ma ci hanno provato S. Dhingra, H. Huang, G. Ottaviano, J.P. Pessoa, T. Sampson e J. Van Reenen nell’articolo The costs and benefits of leaving the EU: trade effects, di prossima publicazione sulla rivista Economic Policy (http://www.economic-policy.org/). I loro risultati identificano due scenari principali che possono emergere dalle trattative in corso: una “Hard Brexit”, che prevede l’uscita del Regno Unito dal Mercato Unico mediante un accordo simile a quello degli Stati Uniti e del Giappone con la UE e regolato quindi dalla World Trade Organization (WTO). Oppure una “Soft Brexit”, che allinei il Regno Unito alla Norvegia: fuori dalla UE, ma ancora all’interno del Mercato Unico. In ciascuno di questi scenari, essi misurano la variazione di benessere sociale che la popolazione britannica subirà, espressa in termini di valore attuale del flusso atteso di beni e servizi che il cittadino medio britannico potrà consumare da oggi a un orizzonte distante nel tempo.

 

Colpiscono due risultati. Innanzitutto la dimensione di questi costi (vedi la figura qui di seguito all’articolo): con la Hard Brexit il consumo reale dei cittadini britannici si ridurrebbe permanentemente di oltre il 2,8% (1,3% nel caso della Soft Brexit) rispetto allo scenario alternativo in cui il Regno Unito rimanesse nella UE. Considerando anche gli effetti indiretti su innovazione e produttività, la perdita sarebbe ancora più alta: 9,4% e 6,3%, rispettivamente nei due scenari Hard e Soft. Il secondo risultato che colpisce è l’entità della maggior perdita subita dai cittadini britannici rispetto ai cittadini degli altri Paesi che intrattengono scambi commerciali con il Regno Unito. Con l’eccezione dell’Irlanda, il benessere diminuirà molto meno negli altri Paesi europei e questa asimmetria sarà decisiva nell’orientare il potere negoziale delle due parti al tavolo delle trattative.

Irrilevanza dei flussi migratori

La differenza principale tra lo scenario Soft e quello Hard riguarda la libertà di movimento della forza lavoro tra il Regno Unito e gli altri Paesi dell’Unione. Con una campagna impostata sulla opposizione agli immigrati, i promotori della Brexit puntano a conseguire lo scenario Hard, proprio per impedire ai cittadini europei di lavorare in Gran Bretagna. Tra il 1995 e il 2015, il numero di immigrati nel Regno Unito, provenienti dall’UE, è salito da 0,9 a 3,3 milioni, e numeri come questi giocheranno nuovamente un ruolo importante nelle elezioni del prossimo 8 giugno. L’evidenza empirica mostra però che le regioni del Regno Unito che hanno conosciuto i flussi migratori più intensi non sono quelle in cui la disoccupazione o la disuguaglianza sono cresciute di più. Al contrario, poiché gli immigrati dal continente sono tipicamente più istruiti, trovano lavoro più facilmente e drenano meno risorse a fini assistenziali, di fatto sono finanziatori netti dei servizi pubblici. L’opposizione agli immigrati dalla UE è priva di ragioni economiche reali.

Cosa conta veramente per gli elettori

Gli elettori britannici che hanno scelto “leave”, contrariamente alle apparenze, sembrano sapere che il loro problema non è l’immigrazione. L’analisi del voto al referendum del giugno scorso compiuta da S. Becker, T. Fetzer e D. Novy nell’articolo “Who voted for Brexit: a comprehensive district-level analysis” (anch’esso in corso di pubblicazione su Economic Policy), conferma questa conclusione. Per chi ha votato “Leave”, il fattore che sembra aver contato maggiormente è il far parte di quei gruppi di popolazione per i quali la spesa pubblica pro-capite a livello locale è un fattore rilevante di benessere. Questa spesa è diminuita del 23,4% in termini reali tra il 2009 e il 2015 e Brexit ha vinto soprattutto dove il suo calo è stato più significativo, ossia nelle aree con più basso livello di istruzione, con più alta concentrazione di popolazione anziana e con minore disponibilità di servizi pubblici.

Il corto circuito del populismo

Per gli elettori a favore della Brexit, l’Europa è quindi diventata il capro espiatorio di problemi che hanno tutt’altra origine. Ma l’uscita dalla Unione europea, lungi dall’aiutare questi elettori insoddisfatti, li punirà doppiamente con le conseguenze dirette e indirette dell’isolamento dal contesto commerciale internazionale.

Il corto circuito del populismo, in cui rischia di avvitarsi l’Europa, è fatto anche di paradossi come questo.

Andrea Ichino e Tommaso Monacelli

Grafico Brexit

Nota del webmaster – Ci scusiamo per la cattiva qualità dell’immagine, dovuta a problemi tecnici che sfuggono al nostro controllo. Il primo istogramma rappresenta la perdita dell’UK: giallo SoftBrexit, blu HardBrexit: 2,8%; il secondo la perdita dell’Irlanda; seguono le perdite subite dagli altri Paesi europei; la perdita dell’Italia è rappresentata dal terzultimo istogramma negativo.

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