LA GLOBALIZZAZIONE E LA DISOCCUPAZIONE

ANCHE I TELAI A VAPORE, DUE SECOLI FA, VENNERO ACCUSATI DI CAUSARE DISOCCUPAZIONE, MA COLORO CHE AL SEGUITO DI NED LUDD DISTRUGGEVANO LE NUOVE MACCHINE NON FACEVANO UN BUON SERVIZIO AL LORO PAESE, E NEPPURE AI LAVORATORI DEL SETTORE

 

Lettera pervenuta il 26 gennaio 2017 – Altri documenti e interventi su questo tema sono raccolti nel portale Il nuovo spartiacque della politica mondiale   .
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Caro senatore, […] sarà anche vero che, come lei ama spesso sottolineare, la globalizzazione ha fatto di più per sconfiggere la fame nel mondo di quanto hanno fatto negli ultimi due secoli tutti i movimenti sindacali, socialisti e comunisti. Però nei paesi sviluppati come il nostro ha portato la disoccupazione, o l’impoverimento dei lavoratori. E alle elezioni votano gli italiani, non gli indiani, i cinesi, gli africani o i sudamericani che possono stare oggi meglio rispetto a cinquant’anni fa. […]
Roberta Chiaraviglio

lUDDISMOAnche i telai a vapore, due secoli fa, vennero accusati di causare disoccupazione; ed effettivamente qualcuno perse temporaneamente il lavoro nell’immediatezza dell’introduzione di quelle nuove macchine. Ma coloro che, al seguito di Ned Ludd, si proponevano di distruggerle non facevano un buon servizio al loro Paese e neppure ai lavoratori del settore. Così come l’incessante progresso tecnologico negli ultimi due secoli non ha affatto prodotto una riduzione dell’occupazione nei Paesi che ne sono stati investiti, allo stesso stesso modo non l’ha prodotta l’incessante aumento della mobilità delle persone, delle merci e dei capitali sul piano planetario. Entrambi i fattori producono – questo sì – la soppressione transitoria di posti di lavoro, e quindi un danno per chi li occupa, nell’immediato: il problema è dunque di indennizzare queste persone e sostenerle efficacemente nel passaggio al nuovo lavoro; ma sarebbe un grave errore di diagnosi affermare, per esempio, che l’11 per cento attuale del tasso di disoccupazione italiano sia dovuto alla globalizzazione: la chiusura delle nostre frontiere alle merci straniere non farebbe certo diminuire la disoccupazione. Tanto meno la farebbe diminuire la chiusura delle frontiere ai capitali e agli imprenditori stranieri: costituisce veramente una follia l’ostilità diffusa nel nostro Paese contro le imprese multinazionali, solo perché tali. Chi nutre questa ostilità dimentica che i dipendenti italiani di imprese multinazionali estere – per citarne solo alcune delle 13.500 per nostra fortuna operanti in Italia: la IBM, la Nuovo Pignone (che è dal 1994 lo head quarter della General Electrica nel sud-Europa), la F.C.A., la Parmalat-Lactalis – guadagnano mediamente il 50 per cento in più, a parità di mansioni, rispetto alla media dei dipendenti delle imprese indigene.
Non farebbe diminuire la disoccupazione neppure l’ipotetica chiusura delle nostre frontiere ai flussi migratori, se è vero che gli immigrati extra-comunitari che lavorano oggi in Italia svolgono per lo più lavori che gli italiani non sono più disponibili a svolgere. Viceversa, sono soltanto i flussi migratori in entrata che salvano il sistema previdenziale dal collasso, in un Paese come il nostro che perde ogni anno circa 300.000 abitanti indigeni, e nel quale il sistema previdenziale non funziona a capitalizzazione, ma si serve dei contributi degli attivi per pagare le rendite dei pensionati. Se non avessimo i contributi versati dai milioni di immigrati, l’Inps sarebbe da tempo in una gravissima crisi.
lUDDVa detto, piuttosto, che la globalizzazione e il progresso tecnologico generano un aumento delle disuguaglianze tra le persone: sia perché fanno aumentare la mobilità dei fattori della produzione, sia perché premiano a dismisura chi è più capace di approfittare delle nuove opportunità offerte dalla tecnica e dall’allargamento dei mercati. Ma questo aumento delle disuguaglianze può essere contrastato efficacemente, oltre che con lo strumento fiscale, anche e soprattutto col porre a disposizione di tutti dei servizi di istruzione e di formazione professionale di alta qualità. Proprio la diffusione dell’istruzione e della formazione è ciò che consente oggi ai lavoratori dei Paesi più sviluppati – anche agli italiani – di lasciare a quelli dei Paesi meno sviluppati le occupazioni meno qualificate, senza che ciò si accompagni a una riduzione complessiva del tasso di occupazione, o a un aumento complessivo del tasso di disoccupazione, rispetto a cinquanta o cento anni fa.      (p.i.)

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